Francesco Borgonovo per la Verità
Poiché il nostro mondo ha irrimediabilmente perduto la dimensione tragica, ogni avvenimento, per quanto terribile, tende a scolorare nella farsa. Ci tocca vivere drammi piccini dalle tonalità pastello, la cui brutalità è offuscata da una patina ottundente di chiacchiericcio, motivo per cui ci sfugge la gravità di ciò che accade.
Prendete la vicenda che coinvolge il celebre pilota di formula uno Lewis Hamilton. A un primo sguardo, tutta la storia si riduce a una polemichetta di bassa lega: il solito vip che scrive stupidaggini sui social network, alimenta il falò delle vanità internettiano e poi si scusa, consegnando l' episodio all' oblio. Eppure, a voler rovistare nelle pieghe degli eventi, si trova qualcosa di più inquietante, che vale la pena approfondire.
I fatti sono scarni. Hamilton, invece di godersi in pace le feste in famiglia, ha avuto la bella idea di pubblicare su Instagram un video del suo Natale. All' inizio del breve filmato, il pilota guarda dritto nella telecamera dello smartphone e dice: «Sono così triste... guardate mio nipote». Subito dopo, si vede il nipote in questione: un bimbetto in piedi vicino all' albero che indossa un costume da principessa rosa e viola. Hamilton gli chiede: «Perché indossi un vestito da principessa? Lo hai chiesto per Natale?». La voce del pilota sale di volume: «Perché hai chiesto un abito da principessa?», insiste. «I bambini non indossano abiti da principessa!».
Il piccino, per tutta risposta, ridacchia e si copre il volto con le mani, sempre stringendo in pugno uno scettro rosa con un cuoricino sulla punta. Se si guarda il filmato originale e si ascoltano le parole di Hamilton, lo scherzo risulta evidente.
Il pilota finge di arrabbiarsi con il nipotino, non lo sta strigliando sul serio: è tutto un gioco.
Ma non importa. Appena il video è stato pubblicato, si è alzata l' onda dei commenti indignati. Una marea di illustri sconosciuti si è sentita in dovere di spiegare ad Hamilton come comportarsi con suo nipote. Dal nulla della Rete sono sbucati come funghi improvvisati esperti di diritti umani, tutti a dire che il pilota ha discriminato il nipote perché si è vestito da femmina.
Insomma, una burla natalizia in famiglia si è tramutata in un terrificante caso di omofobia e Hamilton da zio giocherellone è divenuto un bestiale aguzzino che infierisce sui bimbi.
Il fiume di sdegno è divenuto tanto impetuoso che lo sportivo inglese ha dovuto correre ai ripari, diffondendo - sempre sui social - il seguente messaggio di scuse: «Ieri ho preso in giro mio nipote e ho realizzato di aver usato parole inopportune.
Non avevo intenzione di offendere nessuno. Adoro il fatto che mio nipote ami esprimersi come crede, come tutti dovremmo fare. Le mie scuse più profonde, perché non si può accettare che qualcuno, non importano le origini, sia emarginato o inquadrato in uno stereotipo. Avrà sempre il mio sostegno chi vive la sua vita esattamente come lo desidera e spero che questo mio scivolone venga dimenticato».
Direte: ma che cosa c' è di drammatico in questa faccenda? Niente, all' apparenza. È la solita querelle online che dopo ventiquattrore è già svaporata. Ma provate a scendere un momento in profondità. Provate a rileggere il messaggio di scuse. È un autodafé. Non è un banale comunicato stampa: è qualcosa di molto peggio. Lo stesso Hamilton, probabilmente, non se n' è accorto, perché un esperto di pubbliche relazioni avrà confezionato le frasi al posto suo. Ma quel testo è raccapricciante, è un prodotto degno di un totalitarismo: scritto con i toni «giusti», le parole «giuste», la «giusta» ideologia.
Il pilota ha dovuto inchinarsi e ripetere che «non si può accettare che qualcuno sia emarginato». Ha dovuto ribadire che il suo nipotino ha il diritto di «esprimersi come crede». Eccole, le parole d' ordine del regime che ci imprigiona le menti, la dittatura in cui ciascuno è obbligato a essere libero e a mandare a memoria le filastrocche sulla tutela delle minoranze.
LEWIS HAMILTON SUL JET PRIVATO
Sì, signori, è un regime, anche se ha l' aspetto di uno spettacolo da circo e dunque può agire senza creare sussulti o scompensi. Questo è il dramma che ci sfugge.
Sgombriamo il campo dagli equivoci: il guaio non è che il nipote di Hamilton si sia vestito da bambina suscitando scandalo presso i bacchettoni e i bravi borghesi. Il problema è che quel bambino, magari, ha semplicemente seguito il capriccio del momento, ma è stato immediatamente identificato come appartenente al mondo Lgbt.
Non è più un piccoletto con un costume da principessa: è l' esponente di una minoranza oppressa. Con la scusa di tutelare la sua presunta «diversità», l' hanno omologato, bollato, catalogato. Gli hanno appiccicato addosso un altro stereotipo. La sua differenza è stata cancellata con la stessa violenza con cui è stato imposto il «mea culpa» a suo zio.
Perché questo fanno le dittature: annichiliscono le differenze. Trasformano le persone in manichini. Lo sapeva bene lo scrittore russo Vasilij Grossman, uno che ha sperimentato sulla pelle gli orrori sovietici: «Due persone, due arbusti di rosa canina, non possono essere uguali, è impensabile...», scriveva in Vita e destino. «E dove la violenza cerca di cancellare varietà e differenze, la vita si spegne».
Grossman parlava dell' Urss, la cui tragedia ormai è evidente a tutti. Ma le sue frasi si adattano perfettamente ai nostri tempi, in cui la tragedia è negata però l' orrore totalitario sopravvive.
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