SERIE A CON LE PEZZE AL CULO/2 - 7 SQUADRE (TRA CUI ROMA, LAZIO E FIORENTINA) SU 20 NON HANNO LO SPONSOR SULLA MAGLIETTA - SI ALLARGA IL GAP CON L’EUROPA: I RICAVI DEI CLUB TROPPO LEGATI AI DIRITTI TV CHE SONO UN’ARMA A DOPPIO TAGLIO
Matteo De Santis per “La Stampa”
La crisi si misura anche dalle magliette rimaste senza sponsor. Tante, troppe e portatrici di inevitabili danni economici per le squadre ancora prive di un marchio in bella mostra sul petto e d’immagine per l’intero sistema della serie A, sempre meno ricca e affascinante rispetto alla concorrenza estera.
Se una volta, quando in Italia si spendeva e si spandeva con disinvoltura, ad agosto le sette sorelle erano le pretendenti per lo scudetto, ora sono quelle a caccia di una sponsorizzazione. Questo, purtroppo, passa il convento. Le maglie ancora vuote di Cesena, Fiorentina, Genoa, Lazio, Palermo, Roma e Sampdoria, nella settimana d’inizio del campionato, rappresentano un record negativo mai registrato in Italia e ovviamente l’ennesimo campanello d’allarme sull’appeal in pericoloso ribasso della serie A.
Esaurite da un pezzo le vacche grasse di quando anche le provinciali potevano fregiarsi di marchi multinazionali, i tempi magri stanno andando oltre le peggiori previsioni. Lo dimostra, senza pietà, il raffronto con il resto dell’Europa che conta: Premier League, Bundesliga e Ligue 1 senza un buco libero sulle maglie delle loro squadre, Liga con spazi disponibili solo sulle casacche di Valencia e Levante.
In Italia, prendendo spunto dal titolo di una famosa commedia musicale, è ancora caccia aperta a sette sponsor per sette magliette. Per ognuna di queste ci sono storie, motivazioni, valori di mercato e strategie differenti.
La Roma made in Usa, ad esempio, ha fissato l’asticella per l’incasso dal «main sponsor» a 14-15 milioni e non intende abbassarla più di tanto, come dimostra il gentile rifiuto a una compagnia aerea internazionale pronta a offrirne 4-5 per vedere il proprio nome abbinato a Totti e compagni. Stesso discorso per la Lazio, ormai all’ottava stagione senza uno sponsor fisso. «Non sminuisco il valore del nostro marchio solo per metterci uno sponsor», il ritornello di Lotito. Il Genoa rappresenta una realtà più unica che rara: per ora ha solo un co-sponsor (McVitie’s) e non quello principale, ma può comunque contare sul minimo garantito dal contratto di «marketing agent» con l’advisor Infront.
Casi singoli a parte, il trend negativo riguarda l’intero sistema. La principale causa della progressiva fuga o latitanza degli sponsor dall’Italia, nonostante il recente via libera all’inserimento anche di un terzo marchio sul retro delle divise da gioco, è proprio l’immagine trasmessa all’estero dalla serie A. La crisi economica generale ha influito, ma molto di più (in peggio) hanno fatto le desolanti cartoline di stadi obsoleti e sempre meno gremiti, la convinzione miope di manager e dirigenti di poter andare avanti solo con la spartizione della torta dei diritti televisivi, la progressiva sparizione dei top player e, salvo eccezioni, l’assenza di strategie concrete di marketing, di propaganda sui nuovi social media e di controllo dei diritti d’immagine dei calciatori.
Triste morale della favola: il bacino d’utenza del calcio italiano è molto più spostato sul mercato interno che su quello esterno. La cartina di tornasole arriva anche da chi, per sua fortuna, gli sponsor ce li ha: quasi tutti marchi nostrani, pochissimi provenienti da fuori. Non come avviene, persino nelle serie minori, in Inghilterra, Spagna, Francia e Germania. Il dislivello, d’altronde, è evidente sotto tutti gli aspetti. Anche sul prezzo d’etichetta: 15,750 milioni di euro all’anno della Tim per griffare la serie A contro 50 milioni di sterline a stagione della Barclays, a breve neanche più sufficienti per targare la Premier League. Ogni differenza non è affatto casuale.
2. CONTI IN ROSSO E MARCHI DEBOLI: IL LEGAME A DOPPIO FILO CON LE TV
Giuseppe Bottero per “La Stampa”
Sette anni consecutivi di bilanci in perdita, un indebitamento netto che ha sfondato il miliardo e mezzo. E le prospettive, spiegano dalla società di revisione Deloitte, sono cupe: «Ci aspettano altri due anni difficili», dice Dario Righetti, partner responsabile del Consumer Business Italia. A strangolare il sistema calcio, concordano gli analisti, è un mix di dilettantismo, investimenti sbagliati e conti perennemente in rosso.
«Se le società fossero normali imprese private molte di loro avrebbero già portato i libri in tribunale», spiega l’economista Tito Boeri. Ci sono eccezioni, ovviamente. Nella «Football Money League», la classifica che fotografa i ricavi dei club europei, la Juventus - l’unica a poter contare su uno stadio di proprietà - è al nono posto, e il Milan si piazza subito dietro. Gli altri arrancano. Tra le leghe europee la nostra si piazza al quarto posto, ma la Francia ha messo la freccia. Non è un caso che gli sceicchi abbiano investito sul Paris Saint Germain: nel giro di tre anni ha quadruplicato i ricavi. «Hanno intravisto spazi di crescita che qui non ci sono», ragiona Righetti.
Il nodo dei diritti tv
Al momento l’ossigeno arriva soprattutto dai diritti tv. Ma si tratta di un’arma a doppio taglio, che preoccupa anche i vertici della federazione. Il mercato è «nelle mani di un numero ristrettissimo di media - si legge in un report della Figc -. Se dovessero valutare il loro investimento come non più profittevole o decidere strategicamente di non investire più nel nostro Paese, il sistema sarebbe improvvisamente ridimensionato». L’appeal delle nostre gare, tra l’altro, è in picchiata. Nella Premier League i diritti esteri valgono 908 milioni di euro, qui 117 (2013/14).
Il modello tedesco
L’esempio, indicano gli analisti di Deloitte, è la Germania: bilanci positivi per 12 club su 18, un giro d’affari in crescita da otto anni e, nel frattempo, un titolo Mondiale. «Le fabbriche di consenso devono trasformarsi in fabbriche di profitto», ragiona Fausto Panunzi, docente di economia alla Bocconi. Traduzione. «I club sono amministrati in modo artigianale e, per troppo tempo, le società sono state legate al business principale del proprietario». Gestioni deboli, che hanno appaltato agli abusivi un pezzo di merchandising, che nei bilanci vale meno del 15%. Il Real Madrid, nella prima settimana dopo l’acquisto di Rodriguez, ha incassato 15 milioni grazie alle t-shirt. Da noi fa affari soprattutto «l’industria del tarocco».
I brand deboli
Non stupisce, dunque, che gli sponsor tecnici guardino altrove: il Manchester United ha firmato un accordo decennale con l’Adidas da oltre 941 milioni di euro. Nella serie A comanda la Juventus che, proprio grazie all’intesa con Adidas mette in cassa, complessivamente, circa 30 milioni di euro all’anno, dieci più di Milan (Adidas) e Inter (Nike).
Quello dei nerazzurri è un caso particolare, spiega Luciano Canova, Faculty member alla Scuola Enrico Mattei di Eni Corporate University e collaboratore de La Voce.info, perché neppure nella stagione vincente di Mourinho la società è riuscita a creare un brand forte, esportabile. Tocca a Thohir cambiare rotta: il primo passo è l’ingaggio di Michael Bolingbroke, ex direttore organizzativo al Manchester United.