LA PRIMA PUNTATA DELLA SERIE DI GIANCARLO DOTTO SUL MILAN DI BERLUSCONI
LA SECONDA PUNTATA
LA TERZA PUNTATA
LA QUARTA PUNTATA
LA QUINTA PUNTATA
PREMESSA
Trent’anni non sono uno scherzo. Sono meno di un respiro, meno di un colpo di tosse, ma non sono uno scherzo. Sono il tempo che corre tra il sorriso maliardo di un seduttore alla conquista del mondo e il ghigno apatico di un pornomane alla sua ultima stazione. Ma la lacrima che scende sul volto di un pornomane stanco vale più dell’intera valle di lacrime.
Silvio Berlusconi che lascia il Milan non è uno scherzo. Che lo lascia, per di più, a una misteriosa, indecifrabile company di cinesi. Niente sorrisi, né ghigni. Nessuna onnipotenza infantile o senile. Solo il rumore ottuso dei soldi. Per trent’anni Berlusconi è stato il Milan, lui a San Siro, lui a Milanello che sbarca dai cieli o racconta storie infinite, lui che s’innamora di giocatori e allenatori, lui che li ripudia. Questa non è una svolta epocale. Questo è un lutto. Qualcosa muore e sarà così anche se arriverà Cristiano Ronaldo.
E’ una storia che riguarda tutti, a prescindere dal colore della pelle, juventini, interisti, romanisti, napoletani, platiniani e maradoniani. Anche perché, dei tanti suoi trentennali Milan grandiosi, uno di sicuro, quello dei tre olandesi, di Baresi, Maldini, Ancelotti, Donadoni, Evani e Tassotti, è quello che più si è avvicinato nella seconda metà degli anni ’80 al concetto di “squadra perfetta”.
Non lo è stato sempre e non sempre per novanta minuti (di sicuro, Milan-Real Madrid, 19 aprile 1989, 5 a 0 a San Siro), ma lo è stato per almeno cinque minuti in ogni partita giocata da che è stato al mondo, padrone del mondo.
Otto puntate per raccontare l’era di Berlusconi. Dall’inizio. Da quando scende in elicottero dal cielo e detta la missione: dalla Cavese al tetto del mondo. Un triplo salto mortale. Fino al suo apice. Che è anagramma di epica. Il suo primo, vero Milan, quello di Arrigo Sacchi. Il resto che segue è grandezza sparsa, a volte assoluta, trofei, copertine, sbornie, tutto quello che volete, ma non è epica.
Da “La squadra perfetta” di Giancarlo Dotto (edizioni Mondadori)
SETTIMA PUNTATA. IL CULO DI SACCHI
9 novembre 1988. Si gioca Stella Rossa-Milan. Ritorno degli ottavi di finale della coppa Campioni. Al Maracanà di Belgrado si annuncia subito dura. Una sassata contro il pullman, l’ingannevole verde del campo ghiacciato e una bolgia infernale ovunque. Un impressionato Galliani fa capolino nello spogliatoio con una esortazione che anticipa Wojtyla: “Non abbiate paura. Sono centoventimila là fuori...”. Gullit è il solito guascone.
“Normalmente quanti sono? Novantamila? Allora vuol dire che trentamila sono venuti per vedere noi”. Partita per uomini veri. Si sente sparare dagli spalti durante il riscaldamento. Siamo alla vigilia della guerra civile, monta pericolosamente il nazionalismo serbo di Slobodan Milosevic. A comandare il tifo è il famigerato Arkan, la Tigre, che recluterà proprio tra gli ultras della Stella i suoi tremila torturatori e stupratori scelti.
La Stella Rossa si conferma uno squadrone con i suoi due giovani fenomeni. Non basta un grandissimo Baresi. Il Milan, senza Gullit, danni muscolari, stenta, non tira mai in porta. Il portiere della Stella, Stojanovic, se ne sta infreddolito a guardare. Comicia a calare la nebbia. Savicevic segna al 50’, con un gran sinistro da quindici metri che finisce sotto la traversa, nella porta che un giorno sarà sua. Azione viziata dal fuorigioco di Stojkovic non visto dall’arbitro che, brancolante nella nebbia, non vede neppure il mitico braccio alzato di Baresi. Il Milan non reagisce, è arreso.
berlusconi primo raduno del milan in elicottero con cavalcata delle valchirie
Sembra finita. Ci vorrebbe un miracolo. E miracolo sarà. La nebbia aumenta, diventa un muro fitto, impenetrabile, mai visto nemmeno a Milano. Chi vive a Belgrado giura che una cosa del genere non si vedeva da decenni. Il nebbione cala come una mannaia sulla Stella Rossa in vantaggio 1 a 0, ormai qualificata e il Milan in dieci. D
iventa una partita invisibile. Insieme ai colleghi in tribuna stampa improvvisiamo un cordone di solidarietà oculare, a indovinare quanto continua ad accadere sotto di noi. Ma che accada qualcosa è ormai solo una questione di fede.
Quasi nessuno si accorge dell’espulsione di Virdis al 56’. Non si vede un elefante a dieci metri. Quando l’arbitro tedesco Pauli cancella a mezz’ora dalla fine la già cancellata partita, i milanisti in panchina si abbracciano, quelli della Stella si disperano. Sacchi ammette, bontà sua: “Chiamiamolo pure un colpo di fortuna”.
berlusconi l elicottero del milan
Si rigiocherà il giorno dopo. C’è nervosismo. Ci scappa pure uno screzio sotto la doccia. Giovanni Galli accusa Van Basten: “Non puoi sempre togliere la gamba”. L’avevano preso di mira alla solita caviglia in partita e Van Basten cominciò a saltare a ogni impatto. Alle due di notte l’insonne Sacchi convoca nella sua stanza Baresi, Ancelotti, Tassotti e Filippo Galli. “Che dobbiamo fare per vincere questa partita?”.
I cinque si confrontano duramente, Sacchi va a dormire, si fa per dire, con qualche sicurezza in più. Meno di ventiquattro ore per il miracolo, recuperare Ruud Gullit dopo lo stiramento alla coscia. Nel piano dell’albergo occupato dal Milan, sulla moquette del corridoio, il Moro corre su e giù, balza, si allunga, prova e riprova con il fisioterapista olandese Ted Troost arrivato in mattinata da Amsterdam.
I clienti seguono stupefatti l’imperversante omone in tuta. Sacchi doveva quantomeno portare Gullit in panchina per rimediare all’espulsione di Virdis. Van Basten fa circolare dosi massicce del suo atavico ottimismo: “Siamo fuori dalla Coppa”. Sacchi annusa il vento, chiama tutta la squadra e s’inventa una telefonata di Berlusconi. “Mi ha detto di comunicarvi che non ha speso cento miliardi per uscire al secondo turno dalla coppa dei Campioni”.
Si rigioca con prospettive fosche. E stavolta non è questione di nebbia. Virdis e Ancelotti squalificati. Gioca il moccioso Mannari davanti con Van Basten. Dentro l’altro imberbe Costacurta, Rijkaard spostato a mezzo campo. Gullit si sistema in panchina e basta la sua presenza a turbare i serbi.
Partita delle streghe. Di una ferocia senza precedenti. Il Milan è in debito con la sorte. L’arbitro è sempre Pauli. La squadra di Sacchi non mente, dopo cinque minuti è già chiaro che Milan sarà, che luna è. E’ un grande Milan. Maldini nella zona di Stojkovic, Baresi vigila su Savicevic, un Baresi da cineteca. Donadoni scatta, finta, cuce, taglia il fronte del campo alla sua maniera.
ruud gullit – marco van basten – rijkaard
Dopo quattro minuti è già finimondo. Tiro di Mannari deviato con la mano da Juric, rigore plateale, l’azione continua, mischia, portiere serbo a farfalle, altro tiro di Van Basten deviato da un difensore, palla dentro di quasi un metro. Arbitro e guardalinee non hanno nemmeno l’alibi della nebbia. Al quarto d’ora altro rigore netto negato al Milan per fallo di Stoyanovic che afferra per un piede Mannari in area. Potrebbe essere in vantaggio di due gol il Milan e invece si rema ancora sul confine dell’abisso.
Seguono due gol sfiorati. Al 34’ l’1 a 0. Da Evani a Donadoni che allunga sulla sinistra e crossa sul palo più lontano, Van Basten di testa colpisce come sa e come può, leggiadro. Quattro minuti e la Stella pareggia. Gran numero della solita coppia: Savicevic indovina in semirovesciata palla per Stojkovic, botta sotto la traversa, 1 a 1. Partita di una intensità pazzesca, ghiaccio e inferno, si gioca a cinque gradi sotto zero, Maracanà che scoppia, strapieno, ondeggiamenti funesti, pazzi che si buttano o cadono giù dalle gradinate, la tragedia sembra imminente o forse accade e nessuno se ne accorge.
Tutti battono mani e piedi, qualcuno spara, un sabba immenso. Il dramma accade in campo a tre minuti dalla fine del primo tempo: collisione tra Vasilievic e Donadoni, il milanista ricadendo sbatte violento la faccia sulla terra ghiacciata. Cinque minuti di apnea: gesti disperati in campo, rossoneri che corrono via coprendosi gli occhi, si precipita il medico Rodolfo Tavana, Maldini e Costacurta piangono abbracciati.
Si teme il peggio. Roberto è a terra, inerte, incosciente, gli occhi sbarrati. Esce in barella, subito in ambulanza e all’ospedale di Belgrado a sirene sparate. La diagnosi è pesante ma rassicurante: trauma cranico e mandibola spezzata. Ritorna a Milano con un aereo privato. Resterà due mesi lontano dai campi.
Inizio ripresa, Sacchi azzarda, tutto o nulla. Entra Gullit al posto di Donadoni, vaffanculato in perfetto italiano da tutto lo stadio. A sua volta Gullit spedisce a fanculo Van Basten per eccesso di leziosità. Nella Stella entra un altro asso nascente, il biondo Prosinecki, che inventa subito numeri da circo. Si va ai supplementari. Tutti stremati, in campo e sugli spalti. Freddo boia. Partita che dura da due giorni. E non è finita. Nel secondo tempo supplementare palla buona per Mannari che colpisce debole di testa. Saranno i rigori. Il Milan meritava largamente. In questi casi si perde quasi sempre nel calcio. Sacchi si guarda intorno, cerca le facce giuste. Si presentano in sei, anche il pivello Costacurta alza la mano.
Segnano i primi due rigori Stojkovic e Prosinecki, Baresi e Van Basten. Galli si è già lanciato sulla destra ma para d’istinto col piede la botta centrale di Savicevic. La sua prima impresa da milanista in pectore. Segna Evani. Ancora grande Galli su Mrkela, ci arriva per quanto è lungo con la manona santa.
Non vola una mosca, silenzio tombale. Si presenta Rijkaard, quanto di più rassicurante in certi momenti, l’uomo che vive nell’ovatta del suo naturale distacco dalle cose. Passo lento, felpato, sguardo che non tradisce. Palla dentro. Non c’è bisogno del quinto rigore. Manicomio. Festa. Milan avanti. La dedica è tutta per Donadoni.