LA VENDETTA DI PAPA’ AGASSI: “SONO STATO UN TIRANNO MA RIFAREI TUTTO: UN PADRE AMA SUO FIGLIO, UN TECNICO NO. BOLLETTIERI ME L’HA ROVINATO: PARLAVA SEMPRE DI SESSO E ANDRE COMINCIÒ A TRUCCARSI”
Emanuela Audisio per “la Repubblica”
L’orco non ha cambiato abitudini. Mike Agassi ha 86 anni. È in pensione. Vive in una bella villa tra le palme con la moglie. Con campo da tennis e robot sparapalle. In garage ci sono palline di gommapiuma che pendono da un filo, in salotto ci sono i trofei del figlio, tante racchette, e uno schermo gigante, sintonizzato solo e sempre sul tennis.
È vestito in tuta, sui pantaloni una scritta «No quit». Queste sono le sue confessioni a nome di tutti i padri padroni del mondo. Quelli che lo fanno per il bene dei figli. “Indoor”, in uscita da Piemme, è la risposta ad “Open”.
Mike Agassi contro Andre Agassi, questo è il capitolo finale. Il tie-break di una partita durata 36 anni. Alla fine l’abbraccio è totale, ma giusto perché c’è la voglia di metterci una pietra sopra. Dentro c’è ancora molta rabbia e la convinzione: «Mio figlio avrebbe potuto vincere molto di più e giocare molto meglio».
Mike, lei ha sacrificato quattro figli in nome dello sport.
«Direi tre. Volevo che diventassero campioni. Rita, la prima, nata nel ’60, era una ragazza fortissima, fisico e potenza, ma Pancho Gonzales, l’ex campione di tennis, me l’ha rubata. È diventato il suo allenatore, ci è andato a letto, l’ha sposata nonostante i 20 anni di differenza, l’ha allontanata da me e l’ha rovinata.
Il secondo, Phillip, era un buon giocatore, ma Rita l’ha sempre scoraggiato dicendo che era un perdente. Noi viviamo in Nevada che confina con molti stati mormoni, lui non lo era e così non ha mai trovato buone borse di studio. Tami anche era dotata, ma non aveva fisico, era sempre stanca, ha preferito studiare.
Andre, l’ultimo e il più piccolo, non direi che l’ho sacrificato, visto che è diventato campione e ora è un miliardario molto generoso, attivo socialmente. Aveva 7 anni quando gli predissi che sarebbe diventato numero uno del tennis».
Dov’è il Drago, la macchina che con 2.500 palle al giorno ha torturato l’infanzia di Andre?
«Ho chiamato uno per portarla via e gli ho pure dato 50 dollari per il disturbo. Se sapevo che sarebbe diventata simbolo del male l’avrei tenuta e messa in un museo. È vero, ho attaccato una pallina da tennis sulla culla di Andre e appena ha potuto prendere in mano qualcosa gli ho messo una piccola racchetta, ma devo dire che questo ha sviluppato la sua vista in modo straordinario.
Andre non aveva bisogno di muovere gli occhi per vedere. Per questo trovava angoli impossibili e si allenava con la macchina, al ritmo di un milione di palle l’anno».
mike agassi andre phillip rita
Sembra che parli di un prototipo più che di un figlio.
«Tagliamo corto. Sono stato un tiranno? Sì. Sono stato duro e severo? Sì. Ma lo ribadisco: meglio un padre, un genitore, a fianco del figlio sportivo, che un allenatore. E anzi ai genitori di oggi dico: ribellatevi. Non fatevi rubare i vostri ragazzi dai centri tecnici, dalle scuole specializzate, dai guru. Amano per contratto, se lo fanno, non per sangue».
Ma se lei ha dato Andre, a 14 anni, all’accademia di Bollettieri.
«Doveva andare lì solo per qualche mese. Io gli ho pagato il viaggio, ma appena Bollettieri l’ha visto mi ha telefonato dicendomi che avrebbe sostenuto lui tutte le spese, tanto mio figlio era un fenomeno. Sono andato a riprendermelo, visto che Andre non tornava più a casa, e quello che ho visto non mi è piaciuto. Da tutti i punti di vista.
Mio figlio veniva tenuto a fondocampo, a battere e ribattere la palla, invece di giocare il serve and volley, di colpire al volo e di anticipare il gioco. Facile così: ma se alleni tutti uguali, dov’è la diversità vincente?
Inoltre Nick mi parlava sempre di sesso. Chiaro: sei un ragazzo, hai a portata di mano un sacco di ragazze, che dormono lì accanto. Dov’è che mio figlio ha cominciato ad alzare il suo tasso alcolico e a fare cose strane? Capelli ossigenati, trucco agli occhi, smalto sulle unghie? Proprio lì».
Forse l’avrebbe fatto anche a casa.
«Un padre ama suo figlio, un allenatore lo fa per soldi. Questa è la differenza. Ma agli occhi del figlio il coach sa più cose del genitore. Bollettieri ha rovinato Andre, gli ha tolto ulteriore grandezza, convincendolo a cambiare racchetta: dalla Prince alla Donnay. Mio figlio ha preso un milione di dollari e Nick una mazzetta.
Ma chi ero io per convincerlo che era uno sbaglio? Ho perso Rita, perché Pancho continuava a dirle: io sono stato un grande campione, tuo padre no, fidati di me, non di lui. Gonzales, sposato e divorziato sei volte, ha avuto otto figli, l’ultimo, Skylar, con Rita. Se era così bravo perché nessuno di loro ha sfondato?».
Magari non era la loro strada.
«Quando Andre era un ragazzino e i campioni venivano a Las Vegas facevano un po’ di palleggi con lui, sotto mia insistenza naturalmente. Ilie Nastase, arrabbiato per un lob che lo aveva scavalcato, per vendetta gli ha tirato una palla dritto in faccia. E Bob Sherman, altro grande tennista, mi ha detto: paga, dammi cento dollari, non gioco con i bambocci, gli ho riposto te ne do 100 se vinci la partita e tu 10 se perdi.
Andre ha vinto 6-3, 6-3, Sherman non mi ha pagato, se n’è andato furioso, l’ho inseguito: maledetto, dammi indietro almeno le palle. E volete dirmi che mio figlio non era nato per giocare a tennis. Ma appunto un padre deve esserci in quelle occasioni, e difendere i suoi ragazzi dai soprusi».
Lei sui campi ha anche impugnato un martello.
«L’avrò fatto qualche volta. Perché ero scontento del gioco di Andre. Ho dato una martellata alla recinzione. E sì ho urlato contro i giudici, e quando Andre ha perso in una finale junior da Jim Courier, per colpa di un arbitro, e gli hanno dato il trofeo per il secondo posto, l’ho preso e l’ho buttato nel fiume. Ci interessava vincere, non la consolazione ».
E questo dovrebbe essere un esempio?
«Dietro il successo dei campioni c’è sempre un genitore. Ok sarà per la loro ambizione, magari frustrata, come la mia, che da pugile per l’Iran ho partecipato a due Olimpiadi senza vincerle, ma intravedere un destino per i figli, invece di lasciarli in balia del niente, può essere male?
Connors, Evert, Seles, Capriati, Pierce, Steffi Graf, Nadal, Sharapova, le sorelle Williams: dietro c’è qualcuno della famiglia che ha spinto un’ossessione, come la chiamate voi. Questa casa ha un indirizzo: viale Agassi. Se sono un mostro, sono riuscito molto bene».
A proposito di mostri, lei e Peter Graf vi siete capiti subito.
«Al nostro primo incontro si è tolto la maglia perché anche lui era stato un pugile e voleva affrontarmi. Abbiamo litigato subito. Tutti e due aggressivi e competitivi. Lui: se Andre avesse copiato il rovescio tagliato di Steffi avrebbe vinto di più. Io: se Steffi avesse giocato il rovescio a due mani di Andre ora avrebbe dieci Grand Slam in più. Poi la discussione si è spostata sulla macchina sparapalle».
Non ha mai dato soddisfazione ad Andre.
«Sono rude e brutale. Dico quello che penso. Quando Andre a Wimbledon ha battuto in finale Ivanisevic dopo tre finali perse del Grande Slam e mi ha telefonato, cosa dovevo dirgli?».
Bravo, complimenti.
«Ma no, maledizione, mi sono lamentato: come hai potuto perdere il quarto set? Onestamente lo pensavo. E sapevo anche che Brooke Shields non sarebbe stata la moglie giusta. Lei ripeteva che era vergine e che mi avrebbe fatto cambiare idea».
Ma lei se ne è andato a metà festa di matrimonio.
«Ero stanco. Avevo avuto una giornata orribile. Volevo dormire, buttarmi su un letto. E sì, non mi piace la gente di Hollywood e non mi piaceva l’idea che fossero sposi. Mio figlio non l’ha presa bene, i rapporti si sono molto raffreddati».
Nel libro dice che Andre ha fatto subito una fortuna.
«Era ricco, pieno di contratti ancora prima di vincere. Era solo un ragazzino. Ma in garage c’erano 25 macchine, tra Ferrari, Porsche, Corvette. Noi padri non possiamo competere con i soldi. E così i figli ci vengono rubati una seconda volta. I soldi ti fanno sentire un dio, superiore a tutti. Alla fine comandano loro. È un braccio di ferro che un genitore perde. Anche se Andre è stato generoso con tutti noi e ci ha comprato questa proprietà.
Ma io schiattavo di invida quando nei tornei all’estero vedevo gli altri giocatori, come Chang, con la famiglia in tribuna. Io ho seguito mio figlio solo in America. Una volta l’Img mi ha pagato un viaggio a Wimbledon, ma ho perso la coincidenza e sono arrivato che mio figlio stava perdendo da Sampras, così ho detto al taxi di riportarmi all’aeroporto. Steffi Graf, mia nuora, mi ha offerto il Roland Garros, ma non mi frega niente di vedere gli altri, io ero solo interessato ai successi di Andre. Quando lui è andato in pensione, ci sono andato anche io».
Ha letto il suo libro, Open?
«No. Ma so che ha venduto bene. E che mio figlio ha avuto carattere raccontando tutte le cose sbagliate che ha fatto. Non è un bugiardo».
Leggerà questo, Indoor?
«Me lo ha letto Betty, mia moglie. Con Dominic Cobello l’abbiamo scritto nel 2004. Volevo spiegare ai figli come fosse stato difficile per me armeno trasferirmi in Iran e poi emigrare illegalmente negli Usa. La versione italiana ha una nuova aggiunta».
Perché non legge?
«Sono analfabeta. È un segreto che ho tenuto per tanti anni. Nascosto anche alla mia famiglia. Nemmeno mia moglie sapeva. A 23 anni ero studente a Chicago, ho raccolto un uccellino e per rimetterlo sul nido con una scala sono caduto e ho sbattuto la testa. 17 giorni di coma.
Ho perso la capacità di mettere a fuoco, non avevo più visione laterale. Non potevo né leggere né scrivere. Mi industriai, pagavo i miei compagni perché mi ripetessero le lezioni, iniziai a registrate tutto, e a barare. Patente, esami, moduli da compilare. Si trova sempre un modo, con la mancia. Ci chiamano analfabeti funzionali».
Potesse rifare il padre?
«Sarei ancora un mostro. Non mi pento. Se spingi troppo sbagli, se troppo poco pure. Se lasci ai figli la libertà di essere quello che vogliono, è anche quello un peso. Quando Andre ha lasciato il tennis ho pianto. Finiva anche una parte di me. Ma spero che torni a giocare magari nel circuito dei Master.
È ancora competitivo. Solo non farei più giocare a tennis i miei figli. È uno sport troppo duro, richiede molto, al fisico e al carattere. Sceglierei il golf. Si dura di più. E ho già in mente un’altra macchina sparapalline per il green, visto che i tornei si vincono lì».
Da nonno però ha perso: i nipoti le sono sfuggiti.
«Jaden, 13 anni, figlio di Andre e Steffi, gioca a baseball, e non è niente male. Per un po’ ha provato con il tennis, guardi qui la foto. Ora si fa chiamare Jaden Rock per evitare il cognome ingombrante. Jaz, la ragazza, ha 11 anni, e fa danza classica. Comunque io ho il mio campo da tennis qui davanti a casa e do ancora lezioni. Solo che ora seguo il gioco su una sedia. Sono un mostro invecchiato, ma il mio peccato resta quello: amare i miei figli e aiutarli a vincere».
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