1. IL MAESTRO DI MENNEA CHE TOLSE IL FIATO AL RESTO DEL MONDO
Emanuela Audisio per “la Repubblica”
Sapeva correre e far correre. Accese i missili della velocità italiana, fece programmi, realizzò il sorpasso. Con il razzo Mennea viaggiò nel futuro. Con Roberto Baggio, restituito al gioco, scartò vecchi impedimenti culturali. Diede all’Italia una scuola, le fece alzare la testa, la spinse sul traguardo. Con 46 medaglie. Quando ancora non esistevano i Rudic, i Velasco, i Mourinho.
Per questo lo chiamavano il Professore: se l’aveva detto Carlo Vittori ogni discussione tecnica s’interrompeva. Aveva costruito il sapere, il culto della resistenza alla velocità, che divulgava e condivideva. Fece di Formia la Nasa dell’atletica azzurra. La sua formula dello sprint era semplice: qualità, fatica, sudore.
Come disse Pietro, quel ragazzo magro che con lui condivise il viaggio oltre i confini: «Dietro al mio record del mondo sui 200 metri del ‘79 c’erano undici anni di lavoro, 3.950 giorni di allenamento, compreso Pasqua, Natale e tutte le feste, ottomila ore di lavoro, almeno 5 al giorno, oltre alle gare: 528 di cui 419 individuali e 109 staffette».
Carlo Vittori era un cuore antico e una mente moderna. Burbero, ruvido, polemico. Appena ti vedeva t’inquadrava, aveva uno sguardo penetrante: «Dove crede di andare con quella pelle bianca e fragile, soffrirà di mal di gola per tutta la vita». Era vero. Non era un trasgressivo, per lui contavano autorità e autorevolezza. Rimandò a casa un velocista famoso che era scappato dalla famiglia, convincendolo che un padre va affrontato, ma non ferito con una fuga. Valutava il tono della voce, gli piaceva quella di Bolt: «Da uomo».
Sosteneva che l’Nba rubava talenti allo sprint americano: «Se invece di giocare a basket si mettessero a correre molti primati cadrebbero ». Si batteva per record puliti, senza doping e aiuti. «Il sistema delle lepri ha fatto perdere agli atleti la capacità competitiva. Occorrono nuovi sistemi di rilevazione del vento, l’anemometro a 12 metri dalla corsia numero 7 è inutile, e nei 200 serve misurarlo in curva, anche se è di bolina. Basta con tempi ottenuti in gare ridicole e senza controlli».
Era fiero e orgoglioso di quel 19”72, tuttora primato europeo, che se «fossimo tornati a Città del Messico, Pietro avrebbe corso in 19”50». Sosteneva che il corpo umano non può essere «una Ferrari con i freni della Cinquecento » e che era inutile aumentare il motore degli atleti (massa muscolare) se poi la batteria (stimoli nervosi) restava quella. In sintesi: per la prestazione ci vuole la motivazione.
A Formia seguiva gli scatti e le ripetute di Mennea con una Vespa e Pietro ridacchiava dicendo che il Professore arriva sempre «dopo». Per tutta la vita si diedero rispettosamente del lei. Come usa tra maestro e discepolo. Erano diversi, ma si erano trovati e da quel connubio di passione e follia era nato un altro mondo e un altro modo di correre.
Al quale si erano agganciati Fiasconaro, Sabia, Pavoni, Tilli e tanti altri. Nell’87 la Fiorentina gli portò un talento di vent’anni molto rotto, senza più valore. Si chiamava Roberto Baggio, era reduce da due operazioni al ginocchio (legamenti e menisco). Vittori con un altro tecnico, Locatelli, stabilì modi e tempi della dura rieducazione.
Baggio non fiatò, fece solo una richiesta: avere un portiere per tirare le punizioni. E ricominciò: a prendere le misure della porta, a cucire la distanza fra campo e vita. Vittori che non lo conosceva, capì il suo segreto: «Baggio gioca per sé, non per gli altri. Per il piacere di gratificarsi, non per essere adorato. Questo non va agli allenatori, non rientra nello schema ».
Carlo come Pietro erano stati allontanati dal campo e dallo sport. Come sempre l’Italia fa con persone ingombranti. Troppo rompiscatole. Vittori aveva perso ogni illusione sull’educazione fisica e sportiva delle nuove generazioni. Da quando si era offerto di insegnare ai genitori come giocare a casa con i bimbi e nessuno si era presentato alla conferenza.
Davanti alla bara di Mennea aveva confessato: «Non è normale che un figlio se ne vada prima del padre». Per poi correggersi: «Intendo un padre tecnico ». Pietro se n’è andato il primo giorno di primavera di due anni fa, Carlo la vigilia di questo Natale. La strana coppia non c’è più. Fine della corsa. E di una splendida stagione dello sport italiano che lasciò il mondo senza fiato.
2. SE NON CI SONO MAESTRI, LO SPORT E’ SENZA ANIMA
Oliviero Beha per il “Fatto Quotidiano”
tilli simionato pavoni mennea helsinki
Se ne è andato nel sonno, alla vigilia di Natale, a 84 anni ben portati, colmi di una vis polemica che lo ha sempre tenuto destissimo: non uscivano i giornali, la notizia è stata data in tv, alla radio e sul web scarna e accoppiata al suo allievo più famoso, Pietro da Barletta.
Sabato c' è stato il funerale, in una chiesa ascolana piena di compaesani, colleghi, ex atleti che gli hanno riempito la vita e se ne sono visti rimeritati invece che come atleti e basta, come persone. Ieri l' Ascoli ha giocato la domenica natalizia di B con il lutto al braccio, e ha vinto. Porta bene anche alla memoria…
E pensare che Carlo Vittori è stata una figura italiana assai importante, certamente oltre le sue prestazioni da sprinter dei primi anni '50 con partecipazione olimpica, a Helsinki, e da tecnico per tutto il periodo successivo, con la fama internazionale dagli anni '70 ai '90, come mentore di Mennea, curatore del record mondiale di Marcello Fiasconaro, faber della carriera di molti velocisti di primo livello quando in questo Paese esisteva ancora l' atletica.
Tanto importante da lasciare in coloro che lo hanno conosciuto bene un' impronta da vero Maestro, quelli per capirci che da un pezzo latitano quaggiù, da noi, e che sono decisivi in ogni settore della vita per la trasmissione del sapere, sia individuale che sociale.
olimpiadi di monaco USAIN BOLT IN POSA
Vi parrà una cornice eccessiva per un semplice "grande allenatore" di cui piango umanamente la scomparsa. In fondo si tratta solo di "sport", e neppure di calcio ma di "atletica leggera", dove il virgolettato rimanda a eventuali altre concezioni dei medesimi. Con la semplificazione ignorante dell' idea di sport ho incrociato professionalmente i guantoni negli ultimi quarant' anni.
Una volta, quando ne scrivevo o tentavo di scriverne sulla prima Repubblica, Scalfari il supremo mi obiettò: "Ma che cosa intendi per cultura sportiva, eh? Che dovrei mettermi a fare ginnastica?". Gli avrebbe magari fatto bene, ma non era certamente quello il punto.
Il punto è proprio Vittori, e i Maestri (pochi, sempre meno, oggi all' apparenza praticamente introvabili) che hanno lasciato un segno nelle varie contrade dell' esistenza. Carlo aveva il concetto preciso e centrifugo dello sport come salute interiore ed esteriore per una società migliore, più rispettosa del corpo nel dubbio che esista un' anima.
Dello sport come scuola di vita, della scuola che contenesse lo sport. Dell' educazione che deve discendere da entrambi. E dell' atletica leggera che è la disciplina più naturale del mondo ed è alla base di qualunque sport o gioco che sia. Se corri, salti, lanci sei per forza di diritto in ogni fase storica dell' uomo. Pochi in giro hanno gli stessi valori, a braccio sempre tra di noi uno Zeman piuttosto che un Valerio Bianchini, un po' più giovani di Vittori ma comunque di altra generazione.
E oggi sono proprio i Maestri che mancano ai giovani, atleti o no che siano. Tutto questo ha espresso con la sua personalità all' apparenza sempre urticante, in realtà profondamente attenta all' altro l' uomo di Ascoli, che ha girato il mondo onorato dalle scuole di atletica più rinomate rimanendo l' uomo di Ascoli, nient' affatto rozzo e invece finissimo conoscitore di individui.
Il paradosso è che quindi Mennea è stato solo il titolo più cubitale di un lungo percorso di conoscenza, in cui il successo e il denaro (che cominciava a dilagare) sono stati posti a latere, perché non intralciassero il senso dell' impresa. Sono arrivati, certo, ma dopo…
E le battaglie di Vittori contro l' establishment dei Nebiolo, il doping, recentemente lo sfascio dell' atletica leggera mentre si straparla con il solito metodo arraffone di Olimpiadi a Roma, insomma il potere che ignora e fa danni, sono state instancabili per tutta la vita.
Andrebbe quindi sollevato in alto soprattutto per questo, per ciò che ha rappresentato anche come esempio e non tanto o solo per i risultati. Inscaffalarlo come "l' allenatore di Mennea" fa solo capire che l' uomo Vittori non interessava più nel contesto che abbiamo sotto gli occhi (cfr. Pasolini: "La morte non sta nel poter più comunicare ma nel non poter più essere compresi").
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