IMPARA L’ARTE E METTILA IN BANCA – IL CURATORE E MERCANTE JEFFREY DEITCH: “WARHOL ERA UN ARTISTA-AFFARISTA, ANCHE PICASSO FECE UN’ENORME FORTUNA” – “BASQUIAT SEGUÌ IL MIO CONSIGLIO E MISE DA PARTE LE SUE OPERE COSTITUENDO UN PATRIMONIO”
Alain Elkann per “la Stampa”
Jeffrey Deitch, lei è curatore, critico, mercante d’arte, direttore di museo e tanto altro: come si descriverebbe?
«Sono una delle poche persone che hanno rivestito ogni singolo ruolo nel mondo dell’arte».
Ed è stato anche un artista?
«Sì, ma non voglio sembrare presuntuoso. Ho cominciato con delle performance a metà degli Anni 70. Partivo con discussioni per strada e fotografavo le dinamiche che si sviluppavano. Una delle mie opere, poi, è stata influenzata dai miei studi di marketing alla Harvard Business School. Ero rimasto affascinato dalle esposizioni allestite dai magazzinieri nel supermercato Grand Union. Creavano queste forme scultoree con pile di scatole di cereali e altre confezioni di prodotti alimentari. Ho quindi iniziato a fotografare queste “sculture spontanee” e ho acquistato grandi quantità all’ingrosso di questi prodotti e ri-creato i loro allestimenti».
Perché non ha continuato a fare l’artista?
«Vengo da una famiglia in cui ci si aspettava che io studiassi medicina, legge o finanza».
Così è andato alla Harvard Business School?
«Sì, durava solo due anni e mi sembrava più interessante del diritto. Sono stato uno tra i primi a scrivere di arte dal punto di vista economico. Uno dei miei progetti era scrivere una tesi su Andy Warhol come artista-affarista».
Picasso era un artista con il senso degli affari come Warhol?
«Non un “artista-affarista”, ma Picasso, intenzionalmente o meno, fece un’immensa fortuna. E’ stato uno degli artisti più radicali della sua epoca ed è diventato uno degli uomini più ricchi dei suoi tempi. Ho scritto due saggi sull’economia dell’arte su “Art in America”, uno su Warhol e l’altro proprio su Picasso. Il suo successo economico era dovuto in gran parte alla fiducia nel proprio lavoro».
Ci sono artisti, oggi, che hanno creato quel tipo di valore?
«Sì. Warhol è stato il più vicino a Picasso nel realizzare un patrimonio. Anche Jeff Koons, Richard Prince e Jasper Johns hanno dimostrato grande fede nelle proprie opere».
Lei era un amico di Jean Michel Basquiat: che ne pensa di lui?
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«Stavo uscendo dal Whitney Museum, dove il lavoro di Jean Michel era esposto nell’ambito della Biennale del 1983 proprio mentre Jean Michel stava entrando insieme con il padre Gerard. Era subito prima del 15 aprile, quando negli Usa si deve presentare la dichiarazione dei redditi e dissi a Jean Michel: “Se hai bisogno di aiuto con le tasse, fammelo sapere”. All’epoca ero co-gestore del dipartimento di Citibank. Il giorno dopo Jean Michel e il padre passarono a trovarmi in banca. Gerard voleva che convincessi Jean Michel a dargli dei soldi per comprare e ristrutturare alcuni immobili a Brooklyn».
E lei che cosa hai fatto?
«Dissi a Jean Michel che il miglior investimento era conservare le sue opere. Il padre era infuriato. L’incontro si concluse in un clima rabbioso, perché consigliai a Jean Michel di tenersi i suoi dipinti invece di venderli tutti e investirne i proventi con il padre. Quando Jean Michel morì, i mercanti d’arte presumevano che non fosse rimasto nulla. Ma il padre scoprì un magazzino pieno di dipinti e molti disegni. Jean Michel aveva seguito il mio consiglio e lasciato così un consistente patrimonio».
Lei ha scoperto molti artisti?
«Scoperto non direi, ma è accaduto che nella mia vita mi sia sempre trovato in contatto con gli artisti più interessanti».
Le piacerebbe guidare un’istituzione come la Biennale di Venezia?
«Non sarei qualificato, perché ho passato troppi anni a occuparmi degli aspetti commerciali. Il mondo dell’arte continua ad avere una definizione molto ristretta dei ruoli creativi».
Ma lei è stato direttore del Moca di Los Angeles, giusto?
«È vero, ma le polemiche sul mio passato sono state tra i fattori che mi hanno reso difficile continuare».
Girano più soldi ora nel mondo dell’arte rispetto a quando ha iniziato?
«Sì, quando ho iniziato, 40 anni fa, non c’era quasi un mercato. Quando lavoravo per la John Weber Gallery non c’era nemmeno una reception, perché non c’erano collezionisti da ricevere. Panza di Biumo era il più importante e si vedeva una volta l’anno. Allora non era possibile immaginare che l’arte contemporanea sarebbe diventata la piattaforma dove s’incontrano l’élite del mondo degli affari, l’intrattenimento e le altre arti creative. L’attività sociale attorno al mondo dell’arte è sorprendente: combina l’emozione delle prime teatrali e degli eventi sportivi di alto profilo con la conoscenza dell’arte stessa».
Gli artisti hanno dovuto cambiare?
«C’è una maggiore pressione verso il conformismo. C’è una quantità infinita di arte innocua che non offende nessuno e si smercia facilmente. Ma sono un ottimista: l’innovazione arriva da molti canali, non solo dalle scuole d’arte prestigiose».
Oggi c’è ancora un centro per l’arte?
«E’ New York, ma ci sono altre comunità dinamiche come Los Angeles, Berlino, Londra e Pechino. Gli artisti ora si collegano con altri artisti in tutto il mondo attraverso Internet».
Traduzione di Carla Reschia
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