cattelan “shit and die”

“SHIT AND DIE” (CAGA E MUORI) - FORCHE, SCHELETRI E FRASI CHE RICORDANO LE DECAPITAZIONI: A TORINO LA BANALITÀ DEL MALE DI CATTELAN DIVENTA GENIALITÀ - BONAMI: “PER SUPERARE SÉ STESSO, CATTELAN NON PUÒ FAR ALTRO CHE ESPORRE LE PROPRIE OSSA”

Francesco Bonami per “la Stampa

 

Mai, dico mai, sottovalutare la banalità di Maurizio Cattelan. Nemmeno da prendere sottogamba l’uso eccezionale e devastante che fa della banalità trasformandola in contenuti dal peso specifico molto alto.

 

cavour camillo bensocavour camillo benso

Già il titolo della mostra, Shit and Die - frammento preso in prestito da un famosissimo neon dell’artista americano Bruce Nauman, One Hundred Live and Diedel 1984 -, è così scontatamente e banalmente Cattelan da «funzionare» alla grande sparpagliato per tutta Torino.

 

D’altronde l’intera mostra è un omaggio alla città che la ospita. Prodotto da One Torino, il braccio culturale di Artissima, a Palazzo Cavour, questo progetto è ispirato e dedicato proprio a lui, il conte Camillo Benso e ai suoi, dice la leggenda, particolari gusti legati alla prima parola del titolo che è inutile stare a ripetere.

 

La banalità del male nelle mani di un Cattelan al quadrato diventa genialità, togliendo il mestiere anche a noi curatori, da molti anni oramai disperatamente a fare a gara con gli artisti che curiamo. Quindi Cattelan deve essersi detto «se questi vogliono fare gli artisti, perché io non posso fare il curatore?».

shit and die torino palazzo cavour turin aldo mondino tappeti stesi 1985 courtesy archivio aldo mondinoshit and die torino palazzo cavour turin aldo mondino tappeti stesi 1985 courtesy archivio aldo mondino

 

In realtà il curatore lo aveva fatto già nel 2006 alla Biennale di Berlino. Anche lì come oggi aveva usato come cavalli di Troia per entrare dall’altra parte delle mura due amici curatori, Massimiliano Gioni e Ali Subotnick. A Torino a coprirgli l’eventuale fuga da una brutta figura ci sono Myriam Ben Salah e Marta Papini, giovani curatrici disposte al sacrificio pur di non perdere un’occasione del genere.

 

Hanno avuto fortuna perché dal cilindro non più troppo profondo dell’artista è uscita una mostra riuscita. Una scatola cinese dove da Torino si parla dell’Italia e del mondo. A partire dagli stendardi fuori, versione aggiornata e rivista dei bimbi impiccati di Milano, con la frase «un uomo è stato decapitato oggi». Visti i tempi è purtroppo possibile che sia proprio come scrive Cattelan e che mentre uno entra a visitare la mostra da qualche parte nel mondo qualcuno venga effettivamente decapitato. Così il curatore sottolinea sia la decadenza della cultura occidentale sia la costanza delle barbarie umane.

 

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Ma partiamo dall’inizio. Salendo lo scalone del palazzo ci accoglie un rifacimento di un’opera di Hans-Peter Feldmann, artista tedesco che aveva vinto l’Hugo Boss Prize al Guggenheim di New York mostrando il premio stesso ossia 100.000 biglietti da 1 dollaro a mo’ di tappezzeria.

 

Più shity la versione torinese di Eric Doeringer con soli 30.000 dollari, più o meno, appesi al muro. Fra l’inevitabile e democratica deposizione delle scorie umane e l’atto di morire ci viene suggerito che alcuni possono anche diventare ricchi. Shit, Money and Dies arebbe un titolo forse più completo e adatto allo stato attuale delle cose e dell’arte. Anche se il denaro così come ce lo presenta Cattelan sembra in effetti solo un’altra versione della merda d’artista.

 

cattelan  “shit and die” magescattelan “shit and die” mages

La storia che questa mostra vuole raccontare è la lotta persa in partenza con il nostro comune destino finale. Si sogna, si soffre, si comanda, si perde, si gode, si guadagna, ma poi su tutte le nostre storie scende The End, la fine. Il sogno qui in mostra è rappresentato ad esempio dai mobili disegnati da Gabetti e Isola per l’unità residenziale Olivetti, funzionali e utopici un tempo, tristanzuoli oggi.

 

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Per la sofferenza un simbolo inequivocabile, la forca arrivata dal museo di antropologia criminale Cesare Lombroso, con accanto le brocche di coccio con i graffiti dei condannati a morte insieme ai quadri dell’austriaco Markus Schinwald che con minimi interventi su vecchi dipinti ottocenteschi trasforma i soggetti da banali in misteriosi e cupi.

 

C’è poi una sala dedicata ad Aldo Mondino, torinese doc, figura melanconica e ironica, scomparso nel 2005, che racchiude nel proprio lavoro molti temi che si ritroveranno in mostra, come il dialogo fra civiltà e inciviltà. C’è poi il Lascaux contemporaneo, ovvero il greco Stelios Faitakis che con disegni e graffiti racconterà in una sua caverna immaginaria la storia più o meno recente di Torino e del Piemonte.

 

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In una stanza potremo osservare gli effetti del peso della storia su una povera autovettura che a poco a poco per tutta la durata della mostra si accartoccerà su sé stessa come se fosse risucchiata dal tempo. È il lavoro del duo Pugnaire e Raffini.

 

Ma se la storia ci opprime, il presente si esprime con quello che può. Ce lo dimostra Pascale Marthine Tayou, ricreando un mercato fatto con oggetti e merce recuperati a Porta Palazzo. In una mostra dedicata alla morte non poteva mancare la fossa comune. In questo caso le potenziali vittime sono semplici, innocenti tele bianche seppellite sotto la brulla terra da Davide Balula per essere calpestate dai visitatori.

 

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Alexandre Singh con un’opera basata sulla mappa dei negozi Ikea nel mondo ci vuole pure parlare della coscienza umana che, per chi ha fatto quell’esperienza, si dissolve nel nulla durante il disperato montaggio di un mobile qualsiasi dal nome impronunciabile dell’azienda svedese.

 

Il vero studio di Cavour è, diciamo, riallestito con mobili d’epoca ricoperti di plastica come se fosse solo temporaneamente inagibile e il Conte pronto per tornare al lavoro. Alle pareti foto autoritratto della cugina di Cavour, la Contessa di Castiglione, una sorta di Cindy Sherman sabauda.

 

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 Accecati da una luce abbagliante di fari di auto che stavano sul Muro di Berlino, opera del tedesco Herman Pitz, si può anche avere l’impressione di essere morti ed essere arrivati in paradiso oppure all’inferno, entrando in una specie di corridoio vasariano torinese dove ad artisti vari e sfusi è stato chiesto di fare il ritratto di qualche famoso personaggio torinese.

 

Ne esce fuori un autoritratto collettivo della città benedetto dallo scheletro, in ottima forma, di Carlo Giacomini, direttore del Museo di Anatomia di Torino a fine ’800 che aveva espresso chiara volontà che fosse messo in mostra quello che restava di lui. Chissà se aveva previsto una mostra di questo tipo e con questo titolo curata da una delle personalità più sorprendenti della storia dell’arte. Per superare sé stesso, a questo punto, Cattelan non può far altro che esporre le proprie ossa. Aspettiamo le istruzioni per l’uso.

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