LA BOLLA CHE RIBOLLE - IL NASDAQ HA TOCCATO NUOVI RECORD STORICI, E LA SPECULAZIONE IMPAZZA - IL MERCATO NON È SCHIZOFRENICO COME NEL 2000-01, QUANDO SCOPPIÒ LA CRISI "DOTCOM", MA LA FAME DI INVESTIMENTI FARÀ SALTARE IN ARIA QUALCUNO
Francesco Guerrera per “la Stampa”
Specchiarsi nel passato è sempre difficile. Rivedere vecchie foto o parlare di sé con vecchi amici, fidanzati e professori dopo tanti anni è spesso un’esperienza inquietante, come incontrare un fratello gemello che non sapevamo proprio esistesse. È così anche per i mercati.
Giovedì è toccato al Nasdaq, l’indice-simbolo della tecnologia mondiale, rispecchiarsi in due decenni di alti e bassi. Dopo quindici anni – e dopo tutti gli altri indici di punta americani – il Nasdaq ha finalmente toccato un nuovo record, mettendo la ciliegina sulla torta dei mercati mondiali.
Operatori di borsa, banchieri e giornalisti finanziari non sono esperti d’introspezione. I ritmi sfrenati e le passioni estreme sono il loro pane quotidiano. E quando smettono di correre, è solo per parlare delle loro gesta eroiche nell’arena dei mercati. Ma un record sofferto e, tutto sommato, inaspettato come quello del Nasdaq, è un importante momento di riflessione sia per Wall Street che Silicon Valley.
Che cosa abbiamo imparato negli ultimi quindici anni nel mondo della finanza e della tecnologia? La risposta più comune e più ovvia è che entrambe sono diventate più mature.
E’ certamente vero che il 10 marzo del 2000 – l’ultimo record del Nasdaq – la Borsa di New York era al centro di un’enorme bolla speculativa in cui società senza né arte né parte né utili venivano sospinte a livelli insostenibili da investitori senza scrupoli (chi è troppo giovane si vada a vedere la storia di Pets.com su Wikipedia). Ed è vero che oggi, le società-guida del Nasdaq sono giganti della tecnologia quali Apple, Google, Facebook e Twitter. E che anche la «vecchia guardia» – Microsoft, Oracle, Cisco e compagnia – sta vivendo una bella seconda età, pagando dividendi, assumendo persone e investendo nel futuro.
Come ha detto Daniel Morris, lo stratega degli investimenti dell’enorme fondo-pensione Tiaa-Cref al Wall Street Journal: «Il Nasdaq di oggi è un mondo diverso da quello di allora».
Ha ragione. Le valutazioni delle società di information technology sono molto più normali. Nel 2000, gli investitori erano pronti a pagare un multiplo di 175 volte il valore degli utili delle società quotate sul Nasdaq. Oggi pagano solo 30 volte.
E anche il mondo della finanza che ruota intorno all’It e che la aiuta a crescere con capitali e fusioni si è ripulito.
La bolla dell’internet del 2000 era stata gonfiata da conflitti d’interessi, frodi e altre pratiche losche. Scoprimmo dopo che alcune delle grandi «star» della Wall Street dell’epoca avevano mentito agli investitori, spingendoli a comprare azioni in cui non credevano solo perché ci prendevano la percentuale. Quel Far West spinse il procuratore di New York Eliot Spitzer a lanciare un’operazione mani-pulite contro banche, investitori e gli analisti. Spitzer fu coinvolto in un sordido scandalo di prostituzione anni dopo ma la sua crociata contro le schifezze di Wall Street cambiò le regole del gioco per sempre.
Steve Jobs e Bill Gates a anni
Più anziane ma più sagge. Wall Street e Silicon Valley, come forse tutti noi, si sono convinte di essere migliorate con il passare del tempo. Ma è difficile credere che la memoria di investitori e di imprenditori si sia allungata. E senza la memoria, si corre sempre il rischio di ripetere gli errori del passato. Dopo aver toccato quel famoso record nel 2000, il crollo del Nasdaq fu rapidissimo: perse quasi l’80% nello spazio di pochi mesi.
I poveri investitori che hanno comprato il Nasdaq nel 2000 hanno «guadagnato» meno dell’1% all’anno negli ultimi quindici anni (il resto dei mercati Usa è aumentato di più del 5% l’anno). E bisogna veramente avere la memoria di un’ameba per pensare che, dopo aver quadruplicato negli ultimi sei anni, il Nasdaq salirà molto più in alto.
WALL STREET BORSA NEW YORK STOCK EXCHANGE
Soprattutto perché l’economia americana non è in grandissima forma e già ci sono segni di speculazione selvaggia. A San Francisco, Silicon Valley e Los Angeles, non si parla d’altro che della «sharing economy», «economia della condivisione», il cui simbolo è Uber, il sito che permette agli utenti di prenotare i taxi sul telefonino.
Gli investitori ci credono. Uber, che ancora non è quotata in Borsa, ha già una valutazione di più di 40 miliardi di dollari, circa 100 volte i suoi utili annuali. E non è sola: il club di società giovani che già hanno valutazioni miliardarie cresce di giorno in giorno. Da Airbnb, che subaffitta appartamenti ai turisti, a Pinterest, l’application delle foto, a Box.com, un sito che facilita la collaborazione tra colleghi, i mercati sono ossessionati con la sharing economy.
Nei blog di tecnologia e sulle pagine dei giornali non si parla d’altro che di «chi sarà la nuova Uber», il santo gral per investitori e imprenditori che vogliono fare soldi appena possibile.
Aiutare la crescita di un’idea concepita nel garage da un ragazzino bravo al computer è una delle funzioni vitali del capitalismo americano che ha funzionato benissimo nella scoperta di Microsoft, Facebook, Twitter e centinaia di altre società di successo. Ma è anche la causa periodica di febbri dell’oro non giustificate dalle realtà finanziarie e economiche del paese. Può darsi che Uber, o uno dei suoi rivali, diventi un fenomeno come Facebook ma quello che è certo e che non ci sarà bisogno di cinque società come Uber.
JEFF BEZOS CON KINDLE FIRE HD E KINDLE FIRE HD 8.9
Ma di denaro, per ora, ce n’è in abbondanza – grazie ai tassi bassissimi della Federal Reserve – e da qualche parte deve andare. Per il momento sta andando verso il Nasdaq, le altre borse e le tante società di belle speranze nei dintorni di San Francisco.
In momenti d’oro come questi, Wall Street e Silicon Valley non guardano nello specchietto retrovisore. Speriamo solo che tra quindici anni non saranno costrette a riflettere su un’altra bolla scoppiata.
Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York. francesco.guerrera@wsj.com e su Twitter: @guerreraf72