Michele Masneri per “il Foglio”
Sono vicini; stanno arrivando. Sono già a Roma sud. Più di contraeree vetuste e F-35 mancanti, per contrastare l’avanzata dell’Isis non sarebbe da sottovalutare un soft power molto peculiare. “Di serio è rimasta solo la ristorazione in Italia” diceva una storica battuta di “Boris”. E le armate islamiche, superato il traffico della Pontina, potrebbero trovare un avamposto imprevisto nella Repubblica Indipendente di Eataly, uno stato-cuscinetto tra la via Cristoforo Colombo e Roma Capitale, un Liechtenstein fondato sulla birra artigianale e sulla gallina allevata a terra.
Entrando nel califfato alimentare, gli invasori, al piano terra in questo che fu un tempo l’Air Terminal per i Mondiali di Italia ’90, si imbatterebbero subito nella libreria; e qui troverebbero tutto lo scibile, la costituzione materiale e morale che il principato difende e trascrive, come in un monastero benedettino da “Nome della Rosa”, ma senza pagine avvelenate; anzi, tra biscottini artigianali e leccornie, tomi che tramandano meglio di corani l’ideologia dominante dell’occidente, sottomesso non all’islam come in Houellebecq ma al sifone di Heinz Beck.
Qui, testi sacri appena usciti: partendo da “Pure tu vuoi fare lo chef” (Mondadori) di Antonino Cannavacciuolo, imam della trasmissione “Cucine da incubo”, con barba e sguardo burbero, niente da invidiare ai decapitatori di ostaggi per cattiveria e irsutezza; poi Antonio Daloiso, “Il più grande pasticcere” (Eri-Rai), vincitore hipster con barba e baffi dell’omonimo talent su Rai 2; poi, in un climax estetico, ecco l’opera omnia non di Aristotele ma di Carlo Cracco, da “Dire, fare brasare” al classico “Se vuoi fare il figo usa lo scalogno” (Rizzoli) a “Cracco, sapori in movimento” (Giunti).
eataly coglie la copertina del new york daily sul morso di suarez
Ecco dunque l’ayatollah della repubblica di Eataly: in tutte le copertine con dente candido-sbiancato, chioma fluente e sguardo da fijode- na-mignotta, sicuro di far colpo su numerose amazzoni, come il Gheddafi dei tempi d’oro. I miliziani entrati in questo scriptorium lascerebbero probabilmente perdere altri libri di altri cuochi-profeti: non si filerebbero quello di Alain Ducasse, che seppur papà della nouvelle cuisine, non regge il confronto coi cuochi mediatici; o quello di Maurizio Santin, pur discendente del casato della Antica Locanda del Ponte di Cassinetta di Lugagnano, tre stelle Michelin, che appare in copertina di “Le mie ricette di base”, Guido Tommasi Editore, e però non ci ha chiaramente il fisico.
Lo zeitgeist della Repubblica Culinaria impone infatti che gli chef oltre che un po’ sadici come jihadisti siano anche almeno bellocci; e se rinascesse oggi, Pellegrino Artusi, senza un po’ di palestra, non se lo filerebbe nessuno. Perché la repubblica di Eataly è uno stato etico ma soprattutto estetico. Così, tra gli scaffali, una coppia molto metrosexual di signori brizzolati sfoglia un Cracco e fa degli “mhh”, degli “ah, però”, e si pensa che ammirino dorsali o tricipiti del cuoco televisivo, invece poi uno dei due dice “ah, la pasta cresciuta, proprio come la faceva la mia nonna in Puglia quando eravamo piccoli”.
i gabinetti di eataly foto di guia soncini
Cortocircuiti. Ma nella biblioteca di Eataly, a differenza che nell’abbazia di Adso da Melk e tra gli imam, c’è spazio anche per il pensiero critico; dunque ecco un Marino Niola e il suo “Homo Dieteticus” (il Mulino), che esamina le varie tribù del nostro occidente gastronomico: ecco “crudisti, sushisti, vegetariani, vegani, gluten free”, come le varie tribù di Maometto, sunniti e sciiti e hashemiti e i più cattivi wahabiti. Michael Pollan, autore di “Cotto” (Adelphi), si interroga invece sul perché nella nostra società “si passi così tanto tempo a pensare al cibo e guardare altra gente cucinare”.
Anche con punti di vista scomodi: “Viviamo in un’epoca in cui i cuochi professionisti sono nomi familiari, alcuni di essi famosi come atleti o star del cinema”. Ma in realtà “si passa più tempo a guardare la gente che cucina in tv che a cucinare veramente”, e “meno si cucina nel mondo reale, più si è affascinati dalla preparazione del cibo come esperienza surrogata”. Tv piene, cucine vuote, insomma, nelle parrocchie dell’occidente secolarizzato. Perché la Repubblica Culinaria di Roma sud è laica, anche se non laicista.
Anzi è attraversata da tensioni mistiche contrastanti. Quella del trionfo della merce, della religione del cibo felice; ecco il catechismo del pollo, spiegato da un cartello. “Il pollo in libertà; sono animali di grande rusticità, assumono quotidianamente grandi quantità di erbe spontanee ricche di vitamine e antiossidanti”.
Tra le carni succulente c’è perfino un “coniglio grigio di Carmagnola” (sic). E chissà che ne penserebbe Manzoni. E al suo opposto, la religione del digiuno purificante: “Il corpo mi uccide, io lo uccido”, diceva Doroteo, uno dei padri egiziani del Deserto – e dopo tutto siamo in Quaresima – però il lato penitenziale è parte del Mito del cibo.
EATALY inaug FARINETTI VENDOLA EMILIANO
E Alain René Francois Fourré, un signore francese con nome da mistico, veniva ritrovato morto a Ivrea un mese fa a seguito di un “percorso di purificazione”, e l’autopsia rilevava “estremo deperimento organico con cachessia”, dove la cachessia è “riduzione delle masse muscolari e assottigliamento della cute”; la moglie, anche lei discretamente cachettica, è stata invece soccorsa in tempo.
E però di cachettiche, anche qui in questo tempio delle merci, se ne vedono parecchie: nel reparto verdure, insalate e misticanze che si offrono allo sguardo, mentre cachettiche con capello sfibrato e gioiello etnico valutano e acquistano spezie e broccoli per potage vendicativi al profumo “di scoreggia” come nel “Nome del figlio” di Francesca Archibugi. E, sempre per rimanere in zona Isis, santa Maria Egiziaca, scrive sempre Niola, dopo un’adolescenza smandrappata e punk, si pente e si condanna a mitiche prostrazioni e privazioni alimentari nel deserto, come una popstar qualunque nel suo rehab in Arizona.
Nel deserto della repubblica indipendente di Eataly non c’è il petrolio ma si fanno invece altre trivellazioni. In bella vista, al piano terra, ecco uno stand di estrattori di succhi per frutte e verdure marca Hurom, prezzo da 379 a 589 euro. Con “estrazione lenta”, per fare dei fracking casalinghi come quelli che hanno mandato giù il prezzo del petrolio dell’Opec, e che sono invece l’ultima frontiera della vitamina. Dimenticare infatti la spremuta.
“Il sistema di spremitura brevettato lento permette di preservare gli elementi nutritivi senza macinare gli ingredienti” dice un cartello. E – dal produttore al consumatore – la repubblica di Eataly offre subito un assaggio: per due euro e cinquanta, si può avere un succo di “mango, arancia e mela”, e la gentile signorina però corregge subito: è un estratto, non un succo.
E chiede se per caso si vuole anche il supplemento di aloe, viene tre e cinquanta. Si rifiuta, riflettendo sulla persistenza dell’aloe rispetto ad altre mode alimentari più effimere. La rucola negli anni Ottanta, il lardo di Colonnata nel Duemila; la tagliata di tonno negli anni Dieci: come nella moda, anche nel cibo le manie sono velocissime ed effimere. Slogan. Tormentoni.
Parole d’ordine. Come nella moda “camouflage” e “icona”, qui “filiera” e “chilometri zero”, sempre, nel discorso sul cibo (e in un ristorante molto bio, qualche settimana fa, a Roma, dinieghi di limoncelli, perché, “ci spiace, abbiamo solo prodotti a chilometri zero”, e poi però “gradirebbe un mirto?”; forse per scarse conoscenze di geografia politica). Spostandosi di stand, nel trionfo della pasta di Gragnano e nelle scatolette di liquirizia del barone Amarelli, con etichettature e packaging vintage, ricordando collezioni d’epoca: il risotto alla foglia d’oro di Gualtiero Marchesi, e la pasta Voiello con design by Giugiaro.
Torneranno? Come la gonna pantalone? E poi: forse non potendoci più permettere né sapendo più produrre alta moda, eccoci un paese concentrato solo su “alti cibi”, come da claim Eataly? e sarà un caso ma nell’altro tempio capitolino della spesa bio, il mercato Coldiretti del Circo Massimo, la giunta Alemanno sottrasse un antico edificio a un già deciso museo Valentino, per consacrarlo alla cicoria e all’agretto (con grande successo tra le classi più riflessive).
Cibo e moda, eros e lardo: Camilla Baresani un tempo recensì sul Sole 24 Ore un ristorante milanese di proprietà di Dolce & Gabbana, dicendo che era burino e che la cotoletta era gommosa: successe “il delirio”. E ne “Il sale rosa dell’Himalaya” (Bompiani), invece, romanzo sempre di Baresani, la protagonista milanese viene (giustamente, si direbbe) rapita e brutalizzata dopo aver cercato, appunto, questo sale rosa dell’Himalaya per insaporire un piatto, e sedurre un tizio. I brutalizzatori, come estremo oltraggio, le mettono anche in bocca non quello che si potrebbe pensare, bensì un enorme Big Mac.
Però sta facendo scalpore, a Roma, l’apertura di un nuovo Eataly in piazza della Repubblica, sotto i colonnati umbertini, di fronte alla fontana delle Naiadi progettata da un antenato di Rutelli: al posto di un celebre McDonald’s regno soprattutto di marchette dell’est, non lontano dall’orologio dove Franca Valeri alias la prostituta Delia in “Parigi o cara” (1962) attendeva i clienti.
L’arrivo di un nuovo Eataly oggi crea dibattiti e aspettative, come se aprisse un Gagosian o Guggenheim. E forse questo cibo è un po’ come l’arte contemporanea, tutti comprando mozzarelle o mazzancolle ci sentiamo piccoli collezionisti di Damien Hirst.
Ormai “mangiamo, beviamo, gustiamo e degustiamo, assaggiamo, assaporiamo, sbafiamo, centelliniamo, apprezziamo, gozzovigliamo, ma anche e soprattutto ne parliamo, descriviamo tutto ciò, lo raccontiamo, commentiamo, giudichiamo, rappresentiamo, fotografiamo e filmiamo e condividiamo, immaginiamo, sogniamo, in un vortice dove l’esperienza del cibo e il discorso su di essa si fanno un’unica cosa” scrive Gianfranco Marrone in “Gastromania” (Bompiani). E tra le persone chic ormai non si dice più “com’è andata agli Uffizi”, o “quando andiamo alla Biennale” ma “tu quale Eataly preferisci?”. Generalmente, i più eleganti dicono Torino o Genova.
Questo di Roma Capitale è “un po’ Ikea”. Però proprio qui sbarcherà l’Isis, dopo aver lasciato la Pontina. “Sa che m’è preso n’altro vizio? Quando che so’ libera, che c’ho n’amico fidato, ce n’annamo a magna’ all’Eur”; confida la prostituta Delia alle amiche; e se il New York Times qualche tempo fa ragionava che alla fine Eataly è l’Italia come dovrebbe essere, cioè tutto il cibo e i suoi derivati italiani (pentolame, e corsi, e libri di ricette, e libri di e sui cuochi) presentati bene tutti insieme, insomma una grande installazione o parco a tema.
Questa repubblica dell’aloe è l’Italia che funziona e che vorremmo. C’è il suo welfare, più avanzato di quello italiano: presentando la tessera, gli anziani hanno diritto alla “pensione più” di Eataly, pane rustico e vino sfuso con sconto del 10 per cento. Ci sono le infrastrutture: l’ufficio postale interno (geni), c’è il treno rosso di Montezemolo che parte da qui sotto, e offre pranzetti al sacco by Eataly.
E sulle concorrenti Freccerosse, invece, è sempre Cracco a sovrintendere ai menù “executive”, cioè per i meglio viaggiatori affluenti, mentre Trenitalia per meglio adeguarsi al nuovo zeitgeist ha cambiato gestore. Finiti i tempi di Chef Express, divisione dell’impero della macelleria di Luigi Cremonini, rustico numero uno dei mattatoi italiani, oggi il nuovo appaltatore si chiama soavemente “Itinere”, e tra le leccornie offre anche quella che è la rucola degli anni Quindici: la birra artigianale.
“Finalmente sdoganata dall’abbinamento obbligato con la pizza” dice un cartello qui nella repubblica alimentare di Roma sud. Che, meglio del Califfato, è prescrittiva e ha le sue regole anche molto dure. “Quello che compri, paghi. Se rubi, ti denunciamo”, dice un altro cartello pauroso. E forse sono previste anche lapidazioni. Isis, non vi temiamo. Vi aspettiamo a Roma sud.