1. SAMSUNG: UTILE IN CALO SALVATO DAI CHIP. E APPLE È PRONTA AL “SORPASSO” NEGLI SMARTPHONE
Stefano Carrer per www.ilsole24ore.com
Samsung Electronics ha annunciato oggi il primo calo degli utili in tre anni, con un cedimento a 25mila miliardi di won nel 2014 rispetto al record di 36.800 miliardi di won registrato nel 2013. I profitti operativi per 5.300 miliardi di won conseguiti nel quarto trimestre (in ripresa dai 4.200 miliardi del terzo trimestre) sono apparsi leggermente superiori a quanto preannunciato all'inizio di questo mese, ma pur sempre in calo del 27% anno-su-anno a causa di un crollo del 64% dei profitti generati dalla divisione telefonia mobile a 1.900 miliardi di won (e a un calo dell'11% del giro d'affari complessivo). Un cedimento non compensato a sufficienza dal buon andamento del settore dei chip.
Gli investitori possono consolarsi della cattiva performance del titolo alla notizia di un aumento del 40% del dividendo annuale, ma non hanno ricevuto indicazioni precise sull'andamento corrente del business degli smartphone, salvo un generico riferimento alle aspettative relative ai nuovi prodotti (il successore del Galaxy5 potrebbe arrivare gia' a marzo). La notizia incoraggiante riguarda la ripresa dei margini di profitto della telefonia mobile nel quarto trimestre al 7,5% rispetto al 7,1% del terzo trimestre (performance comunque ben lontana da quelle vicine al 20% realizzate dal gruppo per molti anni).
Samsung ha reso noto che nel quarto trimestre ha venduto 95 milioni di telefonini, di cui un volume tra 71 e 76 milioni di smartphone. Nel suo ultimo trimestre fiscale, Apple ha dichiarato vendite per 74,5 milioni di iPhone (+46%) e appare quindi posizionata per togliere al gruppo sudcoreano la leadership mondiale del settore, specie se continuera' l'erosione della quota di mercato Samsung in Cina (calata in un anno dal 17% a sotto il 10%, secondo stime specializzate) e in altri mercati. Solo nel 2013, Samsung aveva una quota del mercato globale degli smartphone doppia rispetto a quella di Cupertino, che tra l'altro (secondo la societa' di ricerca Counterpoint) ha portato al record del 33% la sua quota di mercato in Corea a novembre.
2. APPLE FA IL PIENO DI UTILI MA IL SUPERDOLLARO SPAVENTA I BIG DELL’INDUSTRIA USA - SOTTO LE ASPETTATIVE MICROSOFT, P&G, CATERPILLAR E DUPONT
Federico Rampini per “la Repubblica”
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C’è la magnifica eccezione di Apple che ormai sfida le leggi della gravità. Ma dietro c’è una schiera di multinazionali Usa che cominciano a soffrire: è l’effetto superdollaro. La moneta sempre più forte degli Stati Uniti, “sollevata” da flussi di capitali che giungono qui dall’Europa e dai Brics, a qualcuno fa male. Rende i prodotti made in Usa sempre più cari e meno competitivi sui mercati stranieri. E svaluta i profitti che la aziende americane fanno nel resto del mondo: troppo “leggeri” una volta convertiti in dollari dagli euro, yen giapponesi o renminbi cinesi (per non parlare dei rubli).
Apple è un caso a parte, come tale entra negli annali di storia delle Borse nonché nel Guinness dei primati. Il suo ultimo utile netto trimestrale, 18 miliardi di dollari da ottobre a dicembre, polverizza ogni record precedente (l’ultimo lo aveva stabilito Exxon a quota 16 miliardi in epoca di caro-petrolio).
Il profitto è cresciuto del 37%, grazie alla performance spettacolare dell’iPhone: 74,5 milioni di apparecchi venduti in un solo trimestre, vendite quasi raddoppiate in un anno sul mercato cinese che ormai è secondo solo a quello americano per l’azienda californiana. Oltre a consolidare il suo primato mondiale per la capitalizzazione di Borsa, Apple “siede” su una montagna di cash che non ha eguali: 170 miliardi di dollari. E smentisce le profezie di sventura che la vedevano avviata verso il declino dopo la morte del suo fondatore Steve Jobs.
Un neo? «I nostri risultati sarebbero ancora migliori — dice il chief executive Tim Cook — se non fosse per la volatilità dei cambi ». Quello che per Apple è solo una piccola turbativa in un’annata d’oro, per altri colossi sta diventando un problema serio. Al punto che la stessa Federal Reserve è costretta a esaminare la nuova “guerra delle valute”, che sospinge il dollaro verso una rivalutazione sostanziale.
Un gigante dei prodotti per la casa come Procter&Gamble, un colosso chimico come DuPont, uno farmaceutico come Pfizer, il produttore di macchine movimento ter- ra Caterpillar, la Microsoft e la United Technologies: si allunga l’elenco delle multinazionali Usa che hanno annunciato profitti deludenti e inferiori alle aspettative. Un tratto comune le assimila: sono tutte aziende globali, i cui risultati dipendono in parte dai mercati esteri.
Dunque lo shock che subiscono è duplice: in tutto il resto del mondo, America esclusa, la crescita rallenta (Cina, Giappone, Brasile, Russia) o è inesistente (eurozona); all’effetto depressivo sulla domanda si aggiunge quello monetario, visto che tutte le valute o quasi si stanno deprezzando se misurate in dollari. In parte è naturale, inevitabile, perfino virtuoso.
I capitali si dirigono verso il dollaro perché è la moneta dell’economia più vigorosa in questa fase; inoltre gli investitori del mondo intero scommettono sull’imminente rialzo dei tassi direttivi Usa e quindi investono dove i rendimenti sono destinati a salire. Ma dietro questi assestamenti fisiologici c’è anche la mano delle banche centrali.
La Bce ha finalmente avviato il suo “quantitative easing” — acquisti di bond — che ha come effetto collaterale anche l’indebolimento dell’euro. La Banca del Giappone l’aveva preceduta su quella strada. La banca centrale di Singapore ha tagliato i suoi tassi, ultima di una lunga serie di autorità monetarie dei paesi emergenti che ricorrono all’espansione monetaria per contrastare il rallentamento della crescita.
Le prime reazioni politiche cominciano a farsi sentire a Washington. Sono venute da alcuni parlamentari repubblicani, che chiedono di inserire nei nuovi trattati di liberalizzazione degli scambi clausole e sanzioni contro la manipolazione dei tassi di cambio. Facile ribattere che gli Stati Uniti dal 2008 in poi fecero la stessa cosa: stamparono moneta, inondarono l’economia di liquidità, ottenendo come effetto collaterale anche una svalutazione competitiva del dollaro (si arrivò fino a un super-euro da 1,60 dollari).
Ieri al termine di un meeting di due giorni la Fed non ha modificato la sua posizione rispetto a dicembre: ha comunicato che sarà «paziente nel cominciare a normalizzare le condizioni monetarie», ha sottolineato «forti aumenti dell’occupazione Usa». Fin qui non ha tradito particolari timori riguardo al mercato dei cambi. Se non ci sono shock inattesi, è l’interpretazione dei mercati, i rialzi dei tassi Usa restano in programma verso la metà di quest’anno.