Rodolfo Parietti per il Giornale
La festa a Wall Street e le catene di montaggio ferme. L' America dei contrasti forti, quella che oscilla tra gli eccessi finanziari e il passo claudicante dell' economia reale, è ora plasticamente rappresentata dalla corsa senza ostacoli della Borsa di New York, ormai a un soffio dall' abbattere il muro dei 20mila punti, e dalla strategia difensiva delle big dell' auto, Ford, GM e Fca, costrette a far fronte al calo delle vendite con il più classico degli interventi, la chiusura temporanea di alcuni impianti.
È la doppia faccia di un Paese che, forse, Donald Trump riuscirà a rimodellare equilibrandone i connotati. In fondo, è proprio su questa scommessa che il mercato sta consolidando i rialzi.
Dalla vittoria alle presidenziali del tycoon, lo scorso 8 novembre, il Dow Jones ha guadagnato quasi il 10% senza fare un plissé neppure davanti ai tre giri di vite ai tassi messi in canna per il 2017 dalla Fed. E se Janet Yellen col piumaggio del falco non spaventa, gli occhi della finanza brillano davanti alla prospettiva di utili che la Trumponomics farà lievitare grazie all' abbattimento delle aliquote dal 35 al 15% e dalle opportunità di business generate dagli investimenti, fino a 1.000 miliardi di dollari, per ammodernare le infrastrutture. Con ricadute positive anche sulla domanda interna.
Nessuno, al momento, sembra preoccuparsi di ciò che potrebbe accadere in caso di ulteriore apprezzamento del dollaro (ieri l' euro è scivolato a quota 1,037, ai minimi da gennaio 2003). Non solo in termini di maggiore inflazione, ma anche di reazione da parte dei Paesi emergenti, di quelli petroliferi legati a filo doppio con il biglietto verde e di nazioni cariche di T-bond come Cina e Giappone.
È probabile che Wall Street sia in fondo convinta che anche la mina del greenback verrà in qualche modo disinnescata. Proprio come successo con la crisi cinese dello scorso gennaio, con il crollo del greggio sotto i 30 dollari il mese dopo, con la Brexit in giugno e la consegna a The Donald della chiavi della Casa Bianca il mese scorso.
Eppure, a fronte di un mercato azionario capace di scansare i pericoli, l' economia reale continua a mandare segnali di debolezza. L' anno intero di attesa prima di arrivare alla stretta decisa la scorsa settimana dalla Fed ne è già una prova, ma è l' industria dell' auto, l' unico settore della manifattura capace di brillare negli ultimi anni, ad avere la spia rossa accesa.
Colpa di vendite sempre più fiacche, unite al nodo dei 6 milioni di americani che hanno smesso di pagare le rate sui veicoli acquistati, che stanno costringendo le big di Detroit a correre ai ripari. Così, dopo che Ford aveva annunciato alcune settimane fa il fermo temporaneo di quattro impianti, anche Fca e General Motors hanno compiuto la stessa mossa. Il gruppo guidato da Sergio Marchionne ha allungato di quattro giorni lo stop già previsto per il 2 gennaio della fabbrica di Windsor (Ontario), da cui esce il nuovo mini-van ibrido Pacifica, e di quella di Brampton che produce la Chrysler 300C.
Più drastici i provvedimenti di GM: da gennaio, cancelli chiusi tra una e tre settimane per due impianti in Michigan e tre nel Kentucky, nel Kansas e nell' Ohio, con il coinvolgimento a turno di 14mila lavoratori. Si tratta di segnali da non sottovalutare. Se la contrazione della domanda di auto dovesse continuare, sarebbe infatti probabilmente inevitabile una recessione nel manifatturiero che neppure Wall Street potrebbe ignorare.