Leonardo Maugeri per “Il Sole 24 Ore”
Dopo aver mietuto già diverse vittime, la caduta dei prezzi del petrolio si appresta a farne altre due: l’ambizione americana di diventare un grande esportatore di gas e lo sviluppo di un mercato globale del gas stesso.
GASDOTTI NABUCCO NORTH E SOUTH STREAM
Negli ultimi anni, molti esperti hanno dato quasi per scontate queste due possibilità, per almeno tre motivi: l’exploit produttivo di shale gas statunitense, la scoperta di grandi riserve di gas in altre parti del mondo (in particolare in Australia, nel Canada, nell’Africa orientale e nel Mediterraneo orientale), e la corsa alla realizzazione di infrastrutture per la liquefazione e l’esportazione del gas in tutto il mondo.
Tuttavia, anche prima del crollo del greggio, il tanto atteso sviluppo mondiale del gas era stato messo a repentaglio da pessima pianificazione industriale, costi fuori controllo, problemi ambientali, necessità di realizzare enormi infrastrutture partendo da zero e nel bel mezzo del nulla. Adesso che la caduta dei prezzi del petrolio ha trascinato con sé la diminuzione di quelli del gas (visto che in gran parte del mondo questi ultimi sono indicizzati a quelli del petrolio), la possibilità di realizzare buona parte della capacità di esportazione di gas naturale liquefatto (GNL) è compromessa.
la mappa dei gasdotti dal Corriere della Sera
Il caso più paradossale è quello dell’Australia, teatro di un boom dello sviluppo del gas che si è rivelato una delle peggiori storie di investimento degli ultimi decenni. In particolare, i piani iniziali di spesa sono lievitati a dismisura, determinando costi finali che eccedono di gran lunga i prezzi correnti del gas naturale sui mercati asiatici. Man ben prima che questi ultimi crollassero (negli ultimi mesi), i costi erano già così alti da mettere in dubbio la possibilità che fosse possibile realizzare un qualche profitto.
putin e il gasdotto south stream
L’aspetto paradossale è che diversi progetti australiani sono ormai in fase di realizzazione avanzata – e dunque entreranno in funzione indipendentemente dall’evoluzione dei mercati. Un esito che bloccherà lo sviluppo di altri progetti in Australia, ma creerà anche ulteriori problemi per molti progetti nel resto del mondo – a cominciare da quelli pianificati negli Usa.
Sulla carta, gli Stati Uniti si trovano in una posizione favorevole per esportare gas liquefatto. Anzitutto, la rivoluzione dello shale gas proseguirà il suo corso, fornendo gas a prezzo relativamente contenuto a tutti i produttori che vorrebbero esportarlo (ho spiegato i motivi che sosterranno questo boom in due articoli pubblicati sul Sole del 2 e 3 dicembre).
In secondo luogo, i costi degli impianti di liquefazione statunitensi sembrano essere tra i più competitivi al mondo – grazie alle infrastrutture già esistenti e all’ampia disponibilità di personale e servizi specializzati. Infine, le destinazioni e i contratti delle potenziali esportazioni sono molto flessibili, non vincolando il compratore a vendere il gas su un solo mercato (inesistenza di clausole di destinazione), e lasciandolo libero di comprare soltanto capacità di liquefazione (formula di tolling-fee) – entrambi aspetti che non esistono in altre parti del mondo. Per tutte queste ragioni, sono state presentate al Dipartimento dell’Energia Usa oltre 40 richieste di autorizzazione per progetti di esportazione di gas liquefatto.
Tuttavia, una volta che più progetti entreranno nella fase di costruzione, è probabile che i costi aumentino sensibilmente a causa del surriscaldamento della domanda (maledizione ricorrente nell’industria del petrolio): da indagini fatte sul campo, già adesso i costi pianificati risultano ottimistici. Allo stesso tempo, il livello corrente dei prezzi del gas nei possibili mercati di esportazione (Europa e Asia) ridurrà l’appetibilità finanziaria e la fattibilità economica di molti progetti statunitensi.
Per di più, quello che era una volta il mercato migliore per il gas Usa – l’Asia – si sta già riempiendo di fornitori mentre la domanda cresce meno del previsto, mentre il mercato europeo si trova in una situazione di eccesso di offerta, con rischi possibili di crisi del gas solo in caso di crisi politiche e inverni molto rigidi.
Su questo sfondo, l’infatuazione americana per l’esportazione di gas ricorda quella – opposta – per l’importazione di gas, che fino al 2010 ha dominato strategie e obiettivi di diverse amministrazioni statunitensi e centinaia di società in tutto il mondo. Allora sembrava che gli Stati Uniti dovessero diventare un grande importatore di gas naturale e si spesero oltre 200 miliardi di dollari per realizzare un gran numero di terminali per la accogliere gas proveniente dall’estero. Quei terminali adesso giacciono inutilizzati ed è proprio sfruttando molte delle loro infrastrutture che adesso si vorrebbe dare sfogo alla nuova infatuazione.
Ma per tutte le ragioni che ho elencato, è improbabile che negli Usa vengano realizzati più di 5/6 impianti per l’esportazione di GNL entro il 2020, con una capacità totale di circa 80-100 miliardi di metri di cubi di gas l’anno. In altri termini, tra un sesto e un quinto dell’attuale consumo europeo (ma gran parte di quel gas andrà in Asia). Troppo poco per contribuire alla formazione di un mercato globale del gas. Troppo poco per le aspirazioni nutrite dagli Stati Uniti.
Molto peggiori le prospettive per il Canada, che pure continua ad alimentare l’ambizione di diventare un grande esportatore di gas. Dei 15 progetti GNL fino a oggi presentati nel paese, forse uno soltanto si materializzerà entro la fine del decennio. Il problema è che perfino con il petrolio a 100 dollari c’erano molti dubbi sulla sostenibilità economica e la realizzabilità pratica di molti di quei progetti, tant’è che nessuna delle società che li aveva proposti aveva preso una decisione finale di investimento. Le ragioni sono tante: la forte opposizione da parte della popolazione aborigena locale (specialmente nella provincia di British Columbia, sul Pacifico, dove quasi tutti gli impianti dovrebbero essere costruiti) alla costruzione di gasdotti e impianti di liquefazione, la carenza di infrastrutture di base, le tensioni ambientali, la carenza di personale specializzato.
Altri giacimenti di gas naturale, scoperti di recente in altre parti del mondo (Africa orientale, Mediterraneo orientale) attendono ancora piani effettivi di sviluppo e decisioni di investimento definitive. L’entità effettiva dei loro costi è tuttora materia di speculazione, ma certo essi richiederanno la costruzione di enormi infrastrutture, l’attrazione di personale specializzato dal resto del mondo, l’importazione di tutto: i costi, pertanto, saranno alti, tali da scoraggiare la loro realizzazione nel breve-medio periodo.
Ciò che resterà delle aspettative gonfiate del passato sarà la più forte crescita del gas liquefatto mai sperimentata, ma non abbastanza forte da rendere il mercato del gas un mercato globale.
Leonardo_Maugeri@hks.harvard.edu
Questo articolo è basato sull’ultimo studio pubblicato da Leonardo Maugeri per la Harvard University, «Falling Short: A Reality Check for Global LNG», pubblicato il 19 dicembre