Alberto Mattioli per “la Stampa”
Quello del mancato ricambio del pubblico è un problema culturale. Se la gente non va all' opera, il problema è di chi l' opera la fa. E non riesce mai a leggerla, dunque nemmeno a proporla, come una delle tante espressioni della contemporaneità, magari contraddittoria, forse élitaria, perfino difficile, ma un' arte del nostro tempo che parla al nostro tempo.
ALBERTO MATTIOLI PAZZO PER L OPERA
No: l' idea dominante è che l' opera vada fatta perché la si è sempre fatta, per perpetuare una tradizione, conservare il reperto di una civiltà certo nostra, ma remota. L' opera come museo, insomma: anzi, con modalità di fruizione e comunicazione molto più antiquate e sprovvedute di tanti musei, perfino italiani. Ma un' arte che (r)esiste soltanto come ripetizione del già noto, escludendo qualsiasi novità, è un' arte morta. Ed è destinata a un pubblico di habitué che va a cercarci conferme invece che stimoli.
Al di là dell' aneddotica macchiettistica della povera zia o della cara nonna che escono dall' ennesimo Puccini altamente lacrimogeno dicendo la fatidica frase «è stato così bello, ho pianto tanto», i teatri italiani continuano pervicacemente ad allevare un pubblico il cui orizzonte estetico è quello di ritrovare ciò che già conosce, invece di provare a fargli scoprire qualcosa di nuovo, o portarlo a riflettere sul vecchio.
Lamentandosi pure perché lo spazio loro riservato dai media diminuisce sempre di più. Ma, a parte il fatto che l' informazione musicale italiana - per non parlare della cosiddetta critica - è fatta di solito in modo tale che meno se ne legge e meglio è, se alla Scala si rifà per la millesima volta La Bohème di Zeffirelli o il Rigoletto di Deflo, e con gli stessi interpreti delle novecentonovantanove volte precedenti (quindi, in Rigoletto, ancora e sempre Leo Nucci), è un po' curiosa la pretesa che i giornali si precipitino a parlarne.
Come se ogni mese si mandasse un inviato a Firenze a raccontare come sono gli Uffizi: belli sì, ma sempre quelli. Lo si manderà semmai se il museo propone un nuovo allestimento o una stimolante, audace rilettura di quel che si conosce già benissimo: esattamente quello che i nostri teatri non fanno.
La forma mentis, concesso e non dato che una mente ci sia, di chi dirige i teatri italiani dovrebbe essere l' opposto. Spazio a un nuovo repertorio, per cominciare, che non è solo l' opera contemporanea cui pure si dovrebbero dare molte più occasioni, ma anche quel buon 75 per cento di titoli del passato che in Italia, per una ragione o per l' altra, non si fanno. E spazio a un modo diverso, nuovo, coraggioso, problematico, di presentare al pubblico quel che il pubblico crede, spesso a torto, di conoscere.
I capolavori del passato non servono come rifugio dalle contraddizioni del presente. Al contrario, compito dell' interprete è trovare le ragioni del presente in quel passato, cosa c' è lì di nostro, di contemporaneo, di urgente, perfino di necessario. Il teatro, tutto il teatro, si parli, si canti e si balli non fa differenza, è uno specchio: e davanti ci siamo noi.
Per questo il problema delle regie in Italia è così fondamentale. Perché oggi è soprattutto alla regia che è demandato scavare nei testi, scoprire questi nessi e svelare perché Monteverdi o Verdi, Händel o Puccini non sono un rifugio consolatorio di rassicuranti certezze o comode commozioni, ma parlano di noi, qui, adesso, oggi. Sono il presente, destabilizzante, difficile, contraddittorio, e non un passato mitico, meraviglioso ma fatalmente finito.
Non si tratta di svecchiare per il gusto di svecchiare o di épater qualche povero vecchietto, come crede chi non vuole che si faccia o i furbetti che lo fanno per conquistarsi una patente abusiva di «modernità». Si tratta di fare un grande sforzo per mettere questi capolavori a contatto con la contemporaneità. Allora, proprio perché di capolavori si tratta, ci esploderanno in mano con tutta la loro forza, da quella dinamite emozionale che sono.