Alberto Mattioli per www.lastampa.it
Il divismo è vivo e canta insieme a noi. Per fortuna. Il clamoroso ritorno alla Scala di Anna Netrebko, la primadonna più «prima» del momento, per tre esauritissime recite di «Traviata», dimostra che lo spettacolo in generale e l’opera in particolare hanno bisogno di grandi personalità, grandi voci, grandi figure, carismatici mostri (nel senso etimologico, «monstrum», prodigio, portento) sacri o magari anche da dissacrare.
Non è un mestiere per ragionieri, con tutto il rispetto dei ragionieri che pure una qualche utilità l’hanno. «Quest’arte non patisce la mediocrità», già scriveva del canto Giulio Caccini quando l’opera era appena stata inventata, e non è che la situazione sia cambiata.
Naturalmente, ci vogliono divi che siano davvero divi, non che lo facciano. I capricci non bastano (e poi stufano prestissimo), la popolarità neppure, le foto spiritose sui social nemmeno. Alla fine si finisce sempre lì, sul palcoscenico, dove barare è difficile ma non impossibile, qualche volta; sempre, no. Anna bella in «Traviata» ha un concorrente pericoloso: sé stessa.
Fu Violetta che la rivelò, nel 2005 a Salisburgo. Dieci anni e molte opere dopo, con una voce che nel frattempo sta a quella di allora come una portaerei a una torpediniera, la Violetta della Netrebko è diversa, magari meno fresca, di certo più consapevole, più donna e meno ragazza, ma sempre travolgente. Il primo atto, teoricamente per lei oggi il meno facile, lo dimostra. Non è solo intatto lo scatto del «Sempre libera»; colpiscono soprattutto le agilità inappuntabili, intonate e precisissime del duetto con il tenore.
Di più, oggi, c’è la voce che è diventata un fiume, due ottave e rotti senza una frattura, un cambiamento di timbro, un «gradino», fiati interminabili (se deve talvolta «rubarne» uno, è perché i tempi di Nello Santi sono lentissimi), una colonna di suono timbrato, pieno, morbido. Francamente, non mi era mai capitato con una Violetta, e ne ho sentite più di quanto mi piaccia ricordare, che una frase come « Ché l’odio atroce / puote in lui più di mia voce!» faccia letteralmente saltare sulla poltrona.
E tuttavia il vocione non è tutto. La signora sa cantare (i piani sono sempre perfettamente appoggiati, e ovviamente riempiono il teatro) e non si limita a eseguire Verdi: lo interpreta. È una Violetta molto più rabbiosa verso il suo destino che rassegnata, volitiva fino alla fine, disperata quando capisce che non c’è più nulla da fare, con un «Gran Dio morir sì giovine!» che è un urlo di ribellione contro l’ingiustizia della sorte nel quale è impossibile non riconoscersi: in fin dei conti, la vita è una malattia incurabile per tutti.
Poi, certo, volendo essere pignoli, dentro una dizione italiana perfetta ci sono un «giuoia» e una «delizio» un po’, un po’ molto, russi, e un pianissimo si spezza (ma viene ripreso con gran classe) nell’«Addio del passato», la cui seconda strofa per fortuna sfugge alle implacabili cesoie «di tradizione», pessima tradizione, impugnate da Santi. Ma, appunto, sono dettagli. E allora si spiegano gli applausi e le chiamate e i lanci di fiori e i «Sei stupenda!» urlati dai palchi, le file in biglietteria alla disperata ricerca del posto che non c’è: la mediocrità la patiamo anche troppo spesso per non festeggiare quando, finalmente, arriva il fenomeno.
E fin qui tutto bene. Dove l’operazione-Netrebko della Scala mostra la corda non è nella sua santificazione del divismo, che è cosa buona e giusta, ma nell’uso che se ne fa. Perché se il resto della parte musicale è interessante (Francesco Meli è un magnifico Alfredo, Leo Nucci un Germont ancora solido e Santi è lento, anzi lentissimo, e per di più tagliator discortese, ma fa un terz’atto magnifico), quella scenica non regge.
Lo spettacolo di Liliana Cavani era già vecchio quand’era nuovo, ventisette anni fa, che in teatro sono in pratica un’era geologica, e non è che sia migliorato con il tempo: tutto un viscontismo di risulta, un lusso di crinoline e uniformi e canapé e pouf e flûtes fine a se stesso, un salotto di nonna Speranza che è l’usato sicuro dell’opera solo per chi dell’opera ha un’idea di museo di vecchie care cose, sempre uguali dunque rassicuranti.
Ora, è ovvio che Annuska arrivava per sole tre recite, senza il tempo di provare una nuova produzione (e poi una «Traviata» seminuova la Scala l’ha già, quella di Cerniakov del ’13, già scomunicata da tutte le povere zie). Quando in scena vedi lei, completamente abbandonata a se stessa, fare quel che fanno tutte le Violette, viene da pensare cosa potrebbe essere davvero una sua «Traviata» oggi, magari senza la frenesia sensuale e rapinosa di dieci anni fa ma con la consapevolezza di chi nel frattempo ha vissuto e ha amato.
C’è un indizio, del resto: nel primo atto, quando si sente da fuori la voce innamorata di Alfredo, lei è seduta su uno degli innumerevoli inutili canapè che ingombrano il palco della Scala come se fosse una filiale di «Poltrone e sofà». E fa un gesto infinitamente piccolo e infinitamente bello, si rovescia all’indietro e si passa una mano sulla gola e sul collo, con una sensualità morbida e appassionata che è l’equivalente visivo di quello che ascoltiamo: questo è l’opera, e per questo ci piace tanto. Ecco: per tutta la serata, Anna Netrebko l’abbiamo ammirata; in quel momento, l’abbiamo amata