Maurizio Crosetti per la Repubblica - Estratti
Claudio che guarda altrove. Claudio protetto dalle sue mani in primo piano, quasi sempre solo. Stremato dopo un concerto o forse felice, mentre passeggia sul lungomare. Nascosto dietro gli occhiali. A braccia larghe come ali nel rito del palco, o disteso sul letto. Altrove e qui, si scrive con la congiunzione ma funzionerebbe anche col verbo, è un libro fotografico atipico, perché ci sono i ritratti di Alessandro Dobici e le parole scritte da Claudio Baglioni per Rizzoli, tracce d’autore in prima persona. Un viaggio, uno specchio. Forse, più altrove che qui.
Abbiamo contato ben tre foto in cui lei ha in mano una matita
«Era il regalo che da bambino più amavo, e chi mi conosce me lo fa ancora: la scatola con 12 o 24 pastelli colorati. La matita è uno strumento di sogni, un ponte. La tecnologia ha un po’ ridotto il mio rapporto con la scrittura manuale, però le cose importanti le scrivo e le disegno ancora così. E la scaletta dei concerti, appoggiata sulla tastiera, resta su un foglio di carta scritto a penna».
Come vive il rapporto con l’immagine?
«In modo strano, a volte litigioso. Le foto e i frame sono il nuovo feticcio. La gente viene agli spettacoli e ormai applaude a metà, perché in una mano stringe lo smartphone che vorrebbe fermare il presente. A me sembra anche una forma di insicurezza: se non la immortali, la vita non esiste. Ma questi scatti continui sono una grave perdita di emozione, si smarrisce il momento che invece è legna da ardere in quell’istante».
In queste foto lei pare intrappolato da un’invincibile timidezza.
«Non ero stato costruito per essere un personaggio pubblico, servirebbe una pelle diversa e io non sono nato con quel vestito addosso. Non cominciai a cantare perché afflitto da febbre artistica, ma per farmi notare dalle ragazzette, per non essere trasparente, per non restare uno scarabocchio sul grande libro del mondo. Venivo dalla periferia romana, io e i miei occhialoni. Ero un quattordicenne impacciato, timido. Un giorno mi presentarono lo scrittore Giuseppe Berto, mi chiese cosa facessi nella vita, io balbettai che scrivevo canzoni e lui, serissimo, mi disse: “Lei non sa la fortuna, in poco tempo e con poche parole può arrivare al cuore e alla mente di tutti”. Quella frase mi fece coraggio».
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Nell’ultimo suo spettacolo, “aTuttocuore”, che ha appena chiuso la stagione nelle arene e riprenderà a gennaio al coperto, lei porta in scena centinaia di figuranti e musicisti. È anche questo, l’altrove?
«Si tratta di una ricerca che procede già da qualche anno: voglio andare oltre il repertorio, che è memoria di tanti. Perché siamo artefici, non solo artisti. Cerchiamo nuove forme di espressione collettiva, con un po’ di presunzione mi piace chiamarlo teatro totale, ci aveva già provato Richard Wagner nell’Ottocento. Concerto, alla lettera, vuol dire insieme, un’assemblea non banale. Si tratta di qualcosa di molto serio e quasi sacro, una specie di messa cantata. Un gioco e un mistero».
Baglioni, lei si sente un classico?
«Quando me lo ripetono, ringrazio e porto a casa. Prendo molto volentieri questo complimento, perché lo interpreto nell’accezione di Italo Calvino, secondo cui un classico è qualcuno che non ha smesso di dire le cose che ha da dire. Sì, spero di essere anch’io un classico, senza troppa polvere e senza muffa. La canzone è arte popolare, non per pochi ma per tutti, una forma musicale da fanfara, scende per strada, riempie di sé ogni viottolo. Disegna la nostra topografia emotiva e sentimentale, tiene insieme le vite e il tempo».
Ecco, il tempo. Come si fa a metterlo d’accordo con il desiderio?
«Forse è il tema centrale della mia vita. Il grande avversario. Gli uomini si sono inventati gli strumenti per misurarlo, ma si tratta di convenzioni. Poi, penso che un artista ponga domande e non dia risposte, io mi sento più che altro un inventore di questioni. Forse il tempo è solo un concetto, forse è una molla, qualcosa che gira. Il tempo è ellittico e alla fine si torna quello che si è sempre stati. Come la pelle, quando si colora di nuovo nella bella stagione».
Il libro – Claudio Baglioni, Altrove e qui (Rizzoli. Fotografie Alessandro Dobici, pagg. 320, euro 35. In libreria dal 7 novembre)
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