Luigi Mascheroni per il Giornale
Gli spazi per l'esposizione sono ristretti. Pur accogliendo 80 «pezzi» il concetto di opera è completamente assente: il lavoro di Banksy è puro messaggio, senza forma.
E la mostra è una museificazione-pacificazione di un atto di ribellione che è deflagrante in strada, conciliante in una sala. Eppure, qui dentro c'è tutto: ordine e bombolette spray, opposizione massima e cornici minimal, merchandising e Guerrilla finanziaria, esclusivi slogan anti-brand, la massima visibilità dell'incappucciato, cortocircuiti iconici, citazionismo e business... Provocazioni, contaminazioni, contraddizioni. A partire dalla notorietà attraverso l'anonimato di un uomo che nel nome ha una banca sì, bank - lui così apparentemente distante dall'arte a pagamento.
Banksy. Tutti lo conoscono, anche se nessuno sa chi è. Lui non vuole farsi vedere, ma tutti lo vogliono ammirare. Ha lottato una vita contro l'establishment, e ora è un ingranaggio delicato e fondamentale dell'art system. E così lo street artist più global del mondo lascia la strada e entra in un museo. O almeno: ce lo portano, senza chiedergli autorizzazioni. Ed eccolo, tra un'asta record e l'altra, «trafugato» al Mudec di Milano per una grande retro-spettiva su un artista che nessuno ha neppure mai visto davanti. E a pensarci bene, è un'arte anche questa.
Litografie offset. Stampe a getto d'inchiostro. Pittura spray su pannello di formica... C'è una serigrafia della Ragazza col palloncino rosso (2004), gemella del quadro clamorosamente autodistruttosi in un'asta di Sotheby's a Londra un mese e mezzo fa. C'è il celebre (è l'immagine-copertina della mostra) Love is in the air (2003), il contestatore dal volto coperto che lancia una molotov-mazzo di fiori. C'è il poliziotto con la faccia di Smile, c'è la bambina vietnamita investita dal napalm che cammina mani nelle mani col pupazzo di Topolino e il pagliaccio di McDonald's.
C'è l'immagine culto di Pulp fiction con due banane al posto delle pistole. Ci sono i cani che Keith Haring faceva coi gessetti e quelli che Jeff Koons fa con l'acciaio gonfiato, ma tenuti al guinzaglio dalle persone sbagliate. Ci sono api, Bobby di Londra, militari e Neanderthaliani che danno la caccia ai carrelli della spesa nel mezzo della savana. E poi ci sono gli amatissimi ratti «odiati, braccati, silenziosi, ma in grado di mettere in ginocchio un'intera civiltà» come dice Banksy che issano cartelli scioccanti. «Welcome to Hell!».
Benvenuti alla mostra The Art of Banksy, a visual protest (fino al 14 aprile 2019) curata da Gianni Mercurio («È stato come lavorare con un fantasma. Comunque l'obiettivo non è rispondere alla domanda Chi è Banksy, ma capire cosa fa l'artista») con 80 tra dipinti, prints numerati, memorabilia (adesivi, stampe, magazine, fanzine...), fotografie, video e circa 60 copertine di vinili e cd musicali disegnati dal misterioso uomo, o donna chissà, di Bristol.
Mostra unofficial, ma che è già «in». La prima noi nel 2016 avevamo visto War Capitalism & Liberty a Palazzo Cipolla a Roma, meno scientifica ma più scenografica - in un museo pubblico italiano. Tre temi-sezioni: la ribellione, a partire da quando si faceva street art ancora con lo stencil, per poter eseguire lavori elaborati e illegali con la massima velocità; i «giochi di guerra», declinati in lotta anti-sistema e contro il potere; e il consumismo, prendendo di mira (contraddizione volutamente apparente, viste le quotazioni di Banksy oggi) il sistema dell'arte e del mercato.
In più un documentario di 20 minuti sulla vita del misterioso artista tra periferie e spazi urbani (forse la cosa più bella della mostra) firmato da Butterfly Art News, la coppia di fan e collezionisti che seguono Banksy da vent'anni e che hanno prestato una buona parte delle opere in mostra (e probabilmente sono anche dentro l'entourage dell'artista...); e una stanza-multimediale che «mappa», proiettandoli sulle pareti, tutti i murales realizzati da Banksy nel mondo.
Banksy is not on Facebook (su Instagram sì) e qui a Milano, dentro il «Museo delle culture», trova illegalmente un posto ufficiale dentro l'arte contemporanea. Che per anni lo ha disprezzato, e ora lo mette in mostra. Per qualcuno (come il curatore Gianni Mercurio) «è il più grande genio della comunicazione dopo Andy Warhol». Per altri è un fenomeno, non solo mediatico, destinato (ma per quanto?) a durare. Per il resto, guardatevi attorno. Può essere qui, dietro di noi, ora. A guardare se stesso.
Un tempo quando l'arte valeva meno, ma era un valore un artista diventava famoso perché speciale. Ora in tempi di talent, reality e virtuale un artista può essere speciale soprattutto perché è famoso. Nonostante il cappuccio in testa.