Marco Giusti per Dagospia
Cannes. Quasi alla fine. Dopo aver visto di tutto, dagli zombi pipparoli al G7 di “Rumors” a Francesca Fialdini nel modestissimo “Marcello mio”, dove almeno c’e una battuta sul governo Meloni che potrebbe chiudere le frontiere, ma nessuno l’ha capita in sala, fino al restauro della Cineteca di Bologna di “Sbatti il mostro in prima pagina” di Marco Bellocchio, siamo arrivati a un giorno dalla fine di Cannes con due film in concorso di esiti alterni.
Il noir erotico brasiliano, già battezzato come “il film più sexy e anche il più politico del festival”, cioè “Motel Destino” di Karim Ainouz, regista sia del riuscito “La vita invisibile di Euride Gusmao” sia dell’inutile “Firebrand”, presentato proprio a Cannes, che torna fortunatamente alle origini con un film ambientato nella caldissima regione del Nordeste, il Cerea, dove e nato anche il regista.
“Motel destino”, bel titolo, interpretato da Iago Xavier, Nataly Rocha e Fàbio Assuncao, girato in 16 mm da Hèlène Louvart, la direttrice della fotografia dei precedenti film di Ainouz, ma anche di quelli di Alice Rohrwacher, non e proprio un piccolo film, visto che e coprodotto da Francia e Germania e che Ainouz si appresta a girare con The Match Factory “Rosebushpruning”, il remake de “I pugni in tasca” di Marco Bellocchio con Kirsten Stewart e Josh O’Connor.
La storia sembra da noir americano anni ’40. Ancora Il postino suona solo due volte, in salsa queer. In un motel fetente del nordeste tutto luci al neon dove si vedono solo canali porno, con un caldo atroce, si forma un triangolo erotico tra due uomini e una donna che non finira bene per tutti. Pieno di musica, corpi sudati che si attraggono, scopate e violenza, non ha tanto convinto i critici “gringos xenofòbicos”, come li definiscono i brasiliani, che lo hanno massacrato.
Leggiamo The Wrap: "Anche se quest'anno ci sono state molte altre anteprime controverse al festival, Motel Destino e una delle poche che e semplicemente solo un'altra delusione. E in gran parte derivativo, cadendo nella cosa peggiore che un film come questo dovrebbe essere: dimenticabile."
E’ piaciuto molto di più ai critici, e magari meno al pubblico, “Grand Tour”, meraviglioso ritorno del portoghese Miguel Gomes al suo cinema più noto e sperimentale, come “Tabù", sofisticato viaggio in un bianco e nero da studio, tra Lisbona, Roma e Parigi, e riprese a colori e non dal vero che vorrebbe riportarci nell’Asia coloniale durante la Grande Guerra. Ci si sposta infatti da Burma a Rangoon a Singapore, da Bangkok a Saigon, da Manila a Osaka, seguendo un funzionario inglese, Edward, Goncalo Waddington, che proprio il giorno dell’arrivo da Londra di Molly, Crista Alfaiate, la sua fidanzata che avrebbe dovuto sposare, decide di scappare e non affrontare una vita matrimoniale.
Apparentemente una decisione senza motivo. Molly, invece di tornare a casa, lo insegue nel suo folle viaggio perdendosi nell’Asia. Se la prima parte e tutta su Edward, la seconda e tutta su Molly. Attraverso i loro incontri con gli europei sparsi tra capitali e posti sperduti, Gomes traccia una grande storia romantica e la fine del sogno dell’imperialismo europeo sull’Asia. “Ce ne andremo via senza averla capita”, ammette uno dei personaggi accendendo una pipa d’oppio.
Pur senza ricostruzioni d’epoca, Gomes riesce a farci capire tu o e a tenere in piedi un film con elementi più disparati, marionette, teatro d’ombre, riprese di una ruota da parco giochi azionata da persone e non da un motore. Molto apprezzato dalla critica, Peter Bradshaw sul Guardian lo battezza come “una unica e preziosa esperienza”, altrove leggo “il film di questa edizione di Cannes”, capisci che possa essere un po’ stancante per un certo tipo di spettatore, ma pur non possedendo i mezzi di David Lean incredibilmente gli e molto vicino e riesce con pochissimo a restituirci lo stesso tipo di crisi del mondo europeo dei primi del secolo rispetto al suo sogni imperialistico. Grande cinema.
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