Luca Valtorta per repubblica.it
Alla fine della salita Francesco De Gregori, per brevità chiamato artista (come da suo titolo di un album bello e cattivo del 2008) ti accoglie all’entrata del piccolo, delizioso teatro della Garbatella (“il quartiere che mi piace più di tutti", diceva l’indimenticato Moretti in vespa di Caro diario).
Qualcuno come regalo gli ha appena portato le amate Gitanes senza filtro che fuma con una certa soddisfazione prima di entrare. Come promesso, è casa sua: “Prego, prego entrate che tra poco inizia” dice ai ritardatari che si sono fermati con lui per un saluto. Scende le scale, un breve abbraccio per gli amici incontrati nel percorso (poi tanto ci sarà tempo), forse anche a qualche vecchio nemico perché queste prove sono per i giornalisti. Ma ormai anche le vecchie ruggini che senso hanno? A lui poi, pare che queste cose lo divertano parecchio, mentre se c'è qualcosa che schifa è la venerazione. In questo tale e quale a Battiato che quando qualcuno gli dice reverente "maestro" si volta a guardare come se quello a cui l'epiteto si riferisce non fosse lui.
L’attenzione però, quella sì, Francesco De Gregori la vuole. Sulla scaletta che viene data ad ognuno dei duecentoventi che occuperanno un posto a sedere c’è scritto: “Off the Record, Please! Francesco ringrazia e si congratula con tutti i suoi amici che decideranno di non usare il cellulare all'interno del teatro".
Del resto il titolo di questi venti concerti, da tempo già tutti esauriti, è, appunto, "Off the records" che vuol dire "non ufficiale", "confidenziale" ma alla lettera "fuori dalle registrazioni" e quindi, per piacere niente video, niente foto "Godetevi il concerto!", ribadirà poi tirando fuori dalla tasca il suo telefonino: un reperto miracolosamente sopravvissuto della prima generazione dei cellulari, dall'aspetto per niente "smart" (come quello che per paradosso ci piacerebbe poter pensare usi Tim Cook quando vuole stare fuori da "The Circle" come dice Dave Eggers o da "The Game" come dice il nostro Alessandro Baricco o dal "gioco che ci gioca" di Huizinga, che aveva già capito tutto).
Uno chiede: Ma come mai? Le piace il vintage?". Risposta: "No, mi piace la musica. Mi piace suonare. Credo che da spettatore se avessi vicino uno che tutto il tempo filma e fa foto mi darebbe molto fastidio".
Poi Francesco De Gregori, occhiali scuri e cappellino, sale sul palco. Ringrazia il pubblico. E dice: "Quello che indosso è il mio vestito da palco e allora ecco, adesso me lo tolgo". Via il cappello, via gli occhiali scuri (sbaglia e si mette quelli da vista sopra gli occhiali scuri, si accorge dell'errore e ride). Insomma via l'artista. Si spengono le luci. Macché. "No, no accendete! Si sta meglio no? Questa è una prova, siamo tra amici...". La band attacca: 'Viva l'Italia'.
Un altro "flash forward": a proposito di classici ma lei è d'accordo sulle quote nella musica italiana? "Direi che è una stronzata. Non so cosa sarebbe stata la mia vita da musicista se non avessi potuto ascoltare fin da piccolo tutte le canzoni straniere che ho sentito. Sarei favorevole soltanto al fatto che un terzo della programmazione venisse riservato alle MIE canzoni (ride)! Ma le radio non mi passano. E come me non passano un sacco di gente e su questo bisognerebbe interrogarsi.
Dopodiché c'è musica buona e musica cattiva: ci sono molte cose che mi fanno schifo ma naturalmente non dirò mai quali sono". Ma perché proprio Viva l'Italia allora? "Beh, se faccio una scaletta che inizia con Viva l'Italia un motivo ci sarà, ma non lo devo spiegare io. Comunque Viva l'Italia è una canzone che negli ultimi tempi avevo rifiutato e che adesso invece sono fiero di avere scritto e di avere cantato. Anche se non è necessariamente legata all'attualità politica, credo che indicare un sentimento di amore e di speranza per questo paese possa essere importante per me e per tutti quelli che appena sentono l'attacco, 'na-na-na-na-na', provano gli stessi sentimenti. Sono quelle canzoni che ti vengono bene e che riescono a identificare, credo, un sentire comune".
E' subito chiaro che questo è un altro mondo. Nel piccolo teatro si sente bene, anzi benissimo. Si vede tutto, qualsiasi errore, qualsiasi imperfezione. Ma questo è proprio quello che colui che per brevità chiamato "Artista" vuole: essere nudo, senza rete davanti al suo pubblico. Una sfida. Perché "visto ho scritto tante canzoni che vengono considerati classici, qui faccio le cose meno note. A me di essere considerato un venerato maestro mi rompe un po' i coglioni...".
Già ma quali canzoni farà allora? Dopo il concerto tira fuori un grande leggio su cui mostra un lungo elenco di canzoni: un altro atto iconoclasta nell'era in cui il pubblico della Rete impazzisce per i cosiddetti "spoiler": ma come l'artista mi dice le possibili sorprese, proprio lui che dovrebbe far di tutto per tenerle segrete? Ebbene sì. E si va da Rimmel (che questa sera fa in versione country) a (per brevità chimata) 'Hilde' (che sarebbe poi La casa di Hilde, un piccolo gioiello dall'album Alice non lo sa, del 1973) da Pablo (sì Pablo! leggete l'intervista qui sopra per sapere un sacco di cose in più su questa canzone e su molto altro) a 'Vincent' (sempre per brevità, ma il titolo intero sarebbe Informazioni di Vincent, un pezzo stupendo che non fa davvero mai dal vivo, tratto dall'album "della pecora" quello pazzo, indecifrabile e psichedelico del 1974 che in realtà si intitola laconicamente Francesco De Gregori).
Alla fine del concerto quando sono andati via tutti gli chiediamo: "Ma la farai davvero Vincent?". "Non lo so".
E in questo c'è tutta la meravigliosa iconoclastia di un artista per brevità chiamato Francesco De Gregori.
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