Antonello Piroso per ‘La Verità’
E se il regista Fausto Brizzi fosse innocente? Sì, lo so: già porre la provocatoria domanda mi attirerà più d' uno strale.
Ma per me il caso Brizzi è solo un punto di partenza per parlare di metodo giornalistico, di qualità dell' informazione, di gogne mediatiche.
Intendiamoci: io non sto sostenendo la sua estraneità ai fatti (gravissimi) che gli vengono imputati. Io non lo so, se è innocente. Ma al momento non so neppure se sia colpevole. Il che è una mezza verità, perché in realtà mi è stato instillato il sospetto che lo sia (e il sospetto - come diceva il gesuita padre Ennio Pintacuda, faro e riferimento del sindaco di Palermo Leoluca Orlando, accusatore di Giovanni Falcone come magistrato «insabbiatore» - è «l' anticamera della verità». «No, è l' anticamera del khomeinismo», ribattè Falcone).
Quello che so, infatti, è ciò che ho sentito dire in una trasmissione televisiva da parte di alcune donne che accusano Brizzi di molestie che spaziano dalla masturbazione «in proprio», al tentato stupro o comunque a un rapporto di natura coercitiva. E quindi sono stato portato a concludere, sulla base di tale servizio delle Iene, che sì, Brizzi è colpevole.
Perfetto. Il mostro è stato sbattuto in prima serata e in prima pagina. Giustizia è fatta. O sfatta? Sì, perché, con tutto il rispetto e dando per scontata la buona fede, io non sono affatto tranquillo al pensiero di vivere in un sistema che tollera l' esibizione del cappio, mette l' immagine di una persona come su un foglio di carta con la scritta «Wanted» ai tempi del Far West, avalla (ai tempi del Far Web) la richiesta di giustizia sommaria, saltando tutte quelle fasi formali che sono: la denuncia alle forze dell' ordine, le indagini delle medesime sotto il controllo del magistrato, un processo, una sentenza, e infine la gogna pubblica. Ma infine, appunto, non all' inizio.
E guardate che neanche il rispetto della procedura mette al riparo dagli errori giudiziari. Devo rammentarvi che nel caso di Enzo Tortora furono magistrati e investigatori a prestare fede alla parola dei cosiddetti collaboratori di giustizia (arrivarono a essere 11 e furono ribattezzati «La nazionale dei pentiti»), che gli rovesciavano addosso ogni tipo di fango, e che non si potevano fare obiezioni perché «non si possono essere inventati tutto, non si conoscono tra loro, hanno fatto dichiarazioni convergenti»?
Devo rammentarvi che nel caso di Lanfranco Schillaci, insegnante di matematica in una scuola dell' hinterland milanese, che una sera portò la piccola Miriam al pronto soccorso perché aveva perdite anali, i medici e i poliziotti prontamente chiamati conclusero che era il sodomizzatore della figlia? Il nome del padre «orco» e della madre «complice» fu scritto nero su bianco in primis dal Corriere della Sera.
Peccato solo che la bambina avesse un tumore tra la vescica e il retto, di cui morirà a un anno di distanza, con il presidente della Repubblica Francesco Cossiga a scusarsi «a nome del popolo italiano»: «Sono qui a chiedervi perdono per le ingiuste sofferenze che la terrena limitatezza delle attività dello Stato vi ha così crudelmente inferto». Immagino la replica: ma così la gente potrebbe essere portata a concludere che servizi e reportage siano tutti «taroccati».
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Il che sarebbe un errore uguale e contrario a quello commesso da chi arriva a ritenere che una circostanza sia vera «perché l' ha detto la televisione».
Le Iene, Report, Striscia la notizia, per rimanere nell' ambito del piccolo schermo, hanno svolto spesso azioni ragguardevoli e meritorie su temi di interesse generale, che hanno portato all' apertura, o riapertura, di fascicoli giudiziari (Le Iene, in verità, in un paio d' occasioni si sono fatte prendere dall' entusiasmo per temi poi rivelatisi pericolosamente farlocchi: vedi alle voci Stamina e Blue whale, il terrificante gioco che avrebbe spinto i ragazzini a suicidarsi buttandosi dal tetto dei palazzi).
E ricordo bene, anche per fatto personale, i colleghi uccisi per le loro inchieste scomode: avevo da poco iniziato a fare, male, questo mestiere quando la camorra nel 1985 a Napoli uccise il cronista del Mattino, Giancarlo Siani. Ma la legittima e umana ansia di «rendere o fare giustizia» non può essere sostituita dalla premura di «farsi giustizia», e tanti saluti alle regole e alla ricerca dei riscontri.
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Perché anche nel caso Watergate, che negli Stati Uniti portò alle dimissioni del presidente Richard Nixon per un' inchiesta di due giornalisti del Washington Post, la loro fonte, Gola profonda, li instradò suggerendo loro: «Follow the money», cioè: seguite il denaro, le tracce lasciate da versamenti e pagamenti. Cosa che i cronisti fecero per settimane e mesi, verificando ogni soffiata o segnalazione.
Ha ben detto Paolo Virzì, collega di Brizzi, in un' intervista in cui si schiera con Asia Argento («Dobbiamo stare con lei, non deve sentirsi sola»): «Dispiace che certi temi siano lasciati alle trasmissioni di intrattenimento, che per loro natura lo propongono in modo scandalistico. Il clima è survoltato, i media sono galvanizzati dalla richiesta di sangue».
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Rieccheggiando quanto sostenuto da Lea Melandri, madre storica del femminismo, stigmatizzando «la gigantesca soap opera«: «Di fronte a queste campagne che viaggiano su Facebook e sui social network è difficile porre un interrogativo: il solo ipotizzare un' obiezione può essere scambiato per complicità con l' orco, molestatore o violentatore. È un terreno delicatissimo». Perché gridare «Crucifige!» è facile quanto prendere un abbaglio. Optando per Barabba.
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