Tommaso Labate per corriere.it
«Quanto poco ci vuole a far saltare l’elezione di un presidente della Repubblica. Un dettaglio, una fesseria, e la storia del Paese cambia».
Tipo?
«Ha presente quella specie di catafalco, quella sorta di cabina con le tende scure che viene montata a Montecitorio, in cui i parlamentari si infilano per votare a scrutinio segreto? Ecco, quel coso ha cambiato la storia d’Italia in un giorno di maggio del 1992. Arnaldo Forlani stava per diventare presidente della Repubblica. Al quinto scrutinio aveva preso 469 voti, al sesto era salito a 479, una o massimo altre due votazioni e ce la avrebbe fatta».
Ma che c’entra la cabina?
«L’accordo era che si procedesse senza usarla. L’accordo era che i parlamentari votassero a scheda aperta, così li vedevi in faccia. Il voto era segreto, certo; ma si poteva intuire quanto era lungo il cognome che scrivevano, capire se avrebbero rispettato gli accordi. Se sulla scheda scrivi “Forlani” o “Spadolini” c’è una differenza che l’occhio attento sa cogliere. Non solo, qualcuno sospettato di essere un libero pensatore poteva discolparsi mostrando la scheda».
Un franco tiratore intende?
«Io li chiamo liberi pensatori».
Comunque sia…
«Seguivamo i lavori dell’Aula nella stanza del governo. A un certo punto, dalla tv, Forlani sente che Oscar Luigi Scalfaro e l’ufficio di presidenza hanno appena accolto la proposta di Pannella di continuare le votazioni usando quel confessionale. Arnaldo teme la trappola e ritira la sua candidatura. Una settimana più tardi, dopo la strage di Capaci, il suo biglietto per il Colle l’avrebbe preso proprio Scalfaro».
Di quell’elezione del presidente della Repubblica, anno 1992, Paolo Cirino Pomicino fu forse il miglior attore non protagonista. Era stato lui, andreottiano di ferro, ad aprire le danze qualche settimana prima, mettendo a sedere allo stesso tavolo i due pretendenti, Andreotti e Forlani.
La scena che si vede nel Divo di Sorrentino.
«La raccontai io a Sorrentino. “Se c’è la candidatura di Andreotti, la mia non esiste”, disse Forlani; “se c’è la candidatura di Forlani, la mia non esiste”, rispose Andreotti; e io che concludevo dicendo “ho capito, sono candidati tutti e due”».
Oggi sembra più semplice di allora.
«Al contrario, è molto più difficile. Quando mollano l’ancoraggio alle tradizioni culturali, i partiti perdono il loro peso nella società e questo si riverbera nei gruppi parlamentari, oggi impossibili da controllare. Guardi la Germania: socialisti, popolari, liberali, ambientalisti, destra, tutto molto definito. Solo da noi non lo è».
Lei come si muoverebbe?
«Gli accordi trovati troppo presto o troppo tardi non reggono. Bisogna muoversi otto-dieci giorni prima dell’inizio delle votazioni. Enrico Letta, Matteo Salvini e Luigi di Maio chiusi in una stanza: si potrebbe partire da lì per poi allargare. Sono gli unici tre che hanno l’interesse a non far finire la partita nelle mani di Renzi».
La candidatura di Berlusconi?
«Aritmeticamente adesso è forte. Ma l’aritmetica, sa...».
Draghi?
«Penso che ci sia l’interesse nazionale e internazionale che rimanga a Palazzo Chigi, soprattutto ora che in Europa non ci sarà più la Merkel. Per il Quirinale bisogna cercare una personalità che abbia tanti anni di attività politica, un’importante esperienza di governo alle spalle, un grande prestigio internazionale. Nomi non ne faccio ma non è impossibile».
Nel 1992, con un partito ancora forte, Andreotti e Forlani arrivarono al «game over» prima del traguardo.
«La corsa di Andreotti durò due ore. Dalle 5 alle 7 del pomeriggio. Il giorno prima della riunione decisiva dei gruppi dc, Forlani va da Giulio e gli dice che avrebbe proposto il suo nome. Mi telefona da Palazzo Chigi Nino Cristofori, mi dice “Paolo, è fatta, muoviamoci per trovare altri voti fuori dalla maggioranza”. Andreotti era in Parlamento fin dalla Costituente, di rapporti ne aveva a destra e a sinistra».
E poi?
«Mi fiondo nello studio di Andreotti e incrocio Mino Martinazzoli. Gli chiedo che cosa ci facesse lì e lui mi risponde che era andato a smentire l’ipotesi di una sua candidatura, a garantire che anche il suo voto sarebbe andato a Giulio».
Sembra fatta.
«Sono da Andreotti quando ricevo una telefonata da Enzo Scotti, che mi dice che per il gruppo dei dorotei il candidato della Dc deve essere Forlani. “Ma chi ha deciso?”, urlo al telefono. C’era stata una riunione, presenti Gava, Silvio Lega, Leccisi, Prandini, lo stesso Scotti. A quel punto, dico ad Andreotti che deve telefonare a Forlani. E Arnaldo gli conferma che, tornando al partito, aveva trovato la rivoluzione... Si erano fatte le 7 di sera. Due ore prima era un altro mondo».
L’avrebbe spuntata Scalfaro.
«Dopo l’uccisione di Falcone, si trovano tutti a casa di Ciarrapico: Forlani, Andreotti, Gava, Craxi. È Craxi che spinge su Scalfaro, presidente della Camera, convinto che avrebbe potuto “garantirlo” dal Colle, Mani Pulite era già iniziata... Un altro calcolo sbagliato, la storia che cambia. Per dire a quelli di oggi che, alle volte, basta un niente».