Marco Giusti per Dagospia
“Come faccio a essere vivo?”, chiede ingenuamente un giocattolo a un altro. “Non so” è la risposta. Non so è anche la risposta che ci diamo noi di fronte a questo nuovo capolavoro della Pixar, Toy Story 4, e al fatto che le avventure di Woody e Buzz ci commuovano e ci divertano così tanto dopo vent’anni. Non sappiamo perché questa quarta storia di giocattoli parlanti ci sia entrata così nel profondo. In fondo il meccanismo è semplice, e l’animazione americana ha messo in scena i giocattoli parlanti fin dalle origini del cinema.
Ma la storia d’amore di Woody e della pastorella Be Peep, che non era presente in Toy Story 3, assoluto capolavoro di sceneggiatura western e noir, il desiderio della bambola Gabby Gabby di trovare una bambina, la fedeltà quasi fordiana di Woody alla sua missione, recuperare il giocattolo forchetta Forky costruito dalla sua bambina Bonnie e perso in un negozio di antiquariato di un paesino dell’America profonda è totalmente coinvolgente. Per non parlare del fatto che Forky, forchetta di plastica che diventa giocattolo perché Bonnie, nel suo primo giorno di asilo, lo ha costruito come giocattolo, si sente più legato alla spazzatura e lì tenda continuamente a tornare.
O che fanno qui la loro apparizione i Lost Toys, i giocattoli senza padrone, capeggiati da Be Peep, la pastorella senza un braccio come la Charlize Theron di Mad Max: Fury Road, vera eroina della generazione post #metoo. E proprio alla condizione femminile siamo obbligati a pensare tutto il tempo, perché i personaggi femminili e i loro desideri di riscatto dominano tutto il film, proprio dopo lo scandalo che ha spinto John Lasseter, ideatore di tutti i Toy Story, a lasciare la Pixar.
E proprio lui doveva essere il regista anche di questo film, che porta il suo nome ora solo come soggettista assieme a Rashida Jones, Will McCormick, Valerie LaPointe. Ma con l’uscita di Lasseter sono scomparsi anche loro e la loro sceneggiatura, riscritta quasi interamente, pare, da Andrew Stanton, vero cervello della Pixar, e da Stephany Folsom. Poi è uscito anche Stanton, abbastanza misteriosamente, e tutto è finito nelle mani del regista Josh Cooley alla sua opera prima.
Ma l’impostazione di Andrew Stanton, sceneggiatore di tutta la saga, si sente e la sceneggiatura, come quella di Toy Story3, è perfetta. L’unico appunto che possiamo fare è di spingere un po’ sulla malinconia e sul lato romantico della storia. Non c’è un cattivo come l’orsetto rosa Lotso, Gabby Gabby assieme ai suoi pupazzi ventriloqui è minacciosa, perché vuole prendere a Woody la sua voce “umana”, quella comandata da un filo, che nei suoi piani le farà raggiungere una bella bambina bianca.
Anche qui, l’ossessione dei giocattoli, e degli autori della Pixar, è la costruzione di un rapporto giocattolo-bambino, ma ancor più che in Toy Story3 qui, dopo vent’anni, i toys devono fare i conti col tempo, col fatto che sono giocattoli vecchi, che i nuovi bambini non sono più i modelli “bianchi” della prima Pixar e Gabby Gabby, costruita per piacere alle bambine wasp di fine secolo potrebbe avere una nuova vita altrove.
Mentre un neo-giocattolo come Forky, la forchetta munariana costruita all’asilo rovistando nella spazzatura, prende vita come giocattolo-creazione. La Pixar è costretta a fare i conti con una nuova generazioni di bambini e soprattutto bambine dell’America di Trump, dove la fedeltà alla parola data, alla missione da compiere, sembrano sentimenti antiquati, ma dove la creatività può ancora essere la risposta vincente. Imperdibile. In sala da giovedì.