Minari di Lee Isaac Chung
Marco Giusti per Dagospia
In qualche modo, benché ambientato nell’America degli anni ’80 di Ronald Reagan in un Arkansas rurale dove l’acqua fa la differenza e non in viaggio nel deserto del West, e dedicato agli sforzi di una famiglia coreana che ha una casa prefabbricata e non dei nuovi poveri bianchi americani che hanno case sulle ruote, “Minari” di Lee Isaac Chung e il suo rivale “Nomadland” di Chloé Zhao, fanno parte dello stesso disegno.
Come se l’America del dopo-Trump avesse bisogno di riaprire gli occhi, di muoversi per trovare, magari in un modello pionieristico tradizionale più che di altri tempi, una nuova identità. Una identità che può essere formata dalla tribù nomade dei nuovi poveri come dagli immigrati asiatici, ma certo che non può più basarsi su un facile modello capitalistico che, comunque la si veda, non ha dato i frutti sperati.
Credo per questo che non solo siano più che degni degli Oscar che hanno vinto, “Minari” ha vinto per la recitazione favolosa della vecchia nonna di Youn Yuh-jung, ma che rappresentino in pieno la nuova vitalità di un paese che si sta ricostruendo dopo un periodo di tenebre di ogni tipo.
Gli sforzi del capo famiglia, Steven Yuen, della moglie che lo segue un po’ critica, Yeri Han, dei due piccoli figli, dei quali uno con una brutta aritmia, e della nonna che seguita a definire gli americani “stupidi americani”, sono gli sforzi di un paese in via di ricostruzione.
A cominciare dalla casa, dalla terra, dal lavoro. Magari abbiamo visto tante altre volte questa storia. Ambientata in anni diversi, certo. E con sviluppi diversi, anche drammatici. E la paura di un ciclone che faccia volare via la casa a metà tra Buster Keaton e il fin troppo ovunque citato “Mago di Oz”, immagine più forte ormai di qualsiasi “Via col vento” di novecentesca memoria, ci porta costante la dimensione non tanto della sfida americana alla natura, come nei film di pionieri del West, ma di rimessa in gioco dei modelli narrativi americani. Rivisti in salsa coreana.
Così la stessa idea di una terra che produca vegetali coreani per la comunità di Kansas City, è come se fosse una variante di altri film di Hollywood sulla terra, a cominciare dai finti cinesi (oggi impossibili) di Paul Muni e Luise Ranier in “La buona terra” di Sidney Franklyn e (ancora, benché uncredited) Victor Fleming, che vinse due Oscar, migliore attrice e miglior fotografia. Ma se lì la produzione era della Metro, come per “Il mago di Oz”, qui è di Brad Pitt.
Detto questo, il film, al di là delle rivisitazioni dei tanti film sulla terra e sui contadini-pionieri, non solo è un altro campione del genere “americana”, dove la casa, come in “Nomadland”, e il rapporto dei protagonisti con il panorama, diventano centrali, ma è anche una deliziosa commedia familiare.
E la meravigliosa nonna di Youn Yuh-jung, cento volte meglio della nonna cafona degli Ozark di Glenn Close, ci diverte e ci commuove costantemente nei suoi dialoghi col bambino più piccolo che si sente americano e non ne vuole sapere della “troppa Corea” della nonna. Ma noi sappiamo da subito che i semi dell’erbetta di Minari che danno il titolo al film e che lei ha piantato nel fiume dureranno per sempre e finiranno per far parte del paese. Una piccola metafora facile, diciamo, ma anche una bella grande lezione per tutti.
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