IL CINEMA DEI GIUSTI – CERCATE DI VEDERE "NOMADLAND" IN UNO SCHERMO IL PIÙ GRANDE POSSIBILE. HA RAGIONE FRANCES MCDORMAND, HA BISOGNO DI SPAZIO. PERCHÉ I SUOI PERSONAGGI, LE LORO STORIE, LA LORO VISIONE DEL MONDO HANNO BISOGNO DI UNO SPAZIO GRANDE COME I TERRITORI AMERICANI CHE ATTRAVERSANO. E ANCHE NOI ABBIAMO BISOGNO DI SPAZIO PER MUOVERCI, PER CAPIRE, DOPO PIÙ DI UN ANNO DI QUARANTENE E DI COPRIFUOCO, CHI SIAMO E COSA STIAMO FACENDO SOLO MUOVENDOCI CON IL CIELO SOPRA LA NOSTRA TESTA – VIDEO

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Nomadland di Chloé Zhao

Marco Giusti per Dagospia

 

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Cercate di vederlo in uno schermo il più grande possibile. Ha ragione Frances McDormand. Perché questo “Nomadland” di Chloé Zhao, giustamente premiato con tutto quello che era possibile, Oscar, Golden Globe, Leone d’Oro, ha bisogno di spazio. Perché i suoi personaggi, le loro storie, la loro visione del mondo hanno bisogno di uno spazio grande come i territori americani che attraversano. E anche noi, come la Fern di Frances McDormand, abbiamo bisogno di spazio per muoverci, per capire, dopo più di un anno di quarantene e di coprifuoco, chi siamo e cosa stiamo facendo solo muovendoci con il cielo sopra la nostra testa.

 

Ci voleva una regista cinese, con un pizzico di Terrence Malick qua un pizzico di Wong Kar Wai là, ma sono per lo più pretesti perché ha uno stile ben definito e personale fin dal suo primo film più o meno identico a questo, per ricordare al cinema americano la natura del romanzo americano.

 

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Una natura formativa, pionieristica che abbraccia Frank Lloyd Wright, John Ford, Leslie Fiedler. Fern, nelle scene più belle e commoventi del film si muove sulla scena come l’Herny Fonda di “Furore”, come i personaggi della meravigliosa striscia “Krazy Kat” di George Herriman (solo ora si è scoperto che era nero e ha finto di essere bianco per tutta la vita) che ripetono i loro movimenti e mettono a dura prova i loro sentimenti in mezzo a un panorama che cambia in continuazione.

 

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E’ vero che non si poteva fare un film così in nessun altro luogo se non in America. E forse solo una donna avrebbe saputo cogliere l’essenza del personaggio di Fern, non homeless ma houseless, non una perdente come in tanta tradizione del cinema della Grande Depressione, ma una nomade per scelta forse economica, la crisi, ma soprattutto per scelta intellettuale e ideologica.

 

E sicuramente solo Frances McDormand avrebbe potuto trasmettere questa forza del personaggio, questo desiderio di vita e mai di rinuncia, di scelta pensata e mai obbligata dagli eventi. Non accetto le provocazioni della sinistra americana che vede l’ambiguità del film nella presenza di Amazon, il capannone dove stagionalmente lavorano Fern e le sue amiche, come fossero parte del panorama nazionale.

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Amazon o la Disney, produttrice del film, stanno a “Nomadland” come la 20th Century Fox di Zanuck stava a “Furore” di John Ford. Sono la produzione, il capitale. Non sono il film. In Italia, paese così poco legato alle leggi del capitalismo, una regista cinese o africana non solo non esiste, ahimé, ma se esistesse, temo che nessun produttore gli farebbe mai fare un film così, preferendole, non vorrei fare nomi, le tante figlie del capitalismo nostrano.

 

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Il percorso, almeno fino a qui, di Chloé Zhao è chiarissimo. Guardate il suo bellissimo primo film su Mubi, “Songs That My Brothers Taught Me”, guardate “The Rider”, è un percorso limpido e coerente. Magari non lo sarà il kolossal Marvel che ha già finito, “Eternals”. Ma questo racconto di viaggio e di conoscenza all’interno di un’America che dopo Obama e Trump, dopo tanti disastri e sogni infranti, è alla ricerca non di un nuovo American Dream, chi ci crede più?, ma di resettarsi, di pulirsi gli occhi, come diceva Kenji Mizoguchi, di una mente limpida, è molto di più di un raccontino facile da Oscar.

 

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Anche perché Chloé Zhao mi sembra una grande regista, scrive, costruisce personaggi, gira, monta l’essenziale, non sbanda da nessuna parte, non ripete nulla, sa illuminarci perché è anche piena di umanità. La sua Fern, che si ricompone e noi stessi ci ricomponiamo con una serie di piccoli tasselli durante il film, come fosse un personaggio animato, un Road Runner/Wyle A. Coyote da realismo sociale, prende coscienza di sé nel movimento. Perché solo così riesce a caricarsi di forza e a sentirsi parte della natura e della storia americana.

 

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Tutto l’orrore, tutti gli errori e tutte le contraddizioni del paese, non sono scordati, perché li sentiamo perfettamente proprio nello sguardo di Fern. Ma come il personaggio di Joel McCrea ne “I dimenticati” di Preston Sturges, uno dei film chiave sulla Grande Depressione, troverà proprio nel suo racconto la forza per superarli. In sala e su Disney+

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