Valerio Cappelli per il “Corriere della Sera” - Estratti
Fatece largo che arriva lui, Claudio Amendola. Ha 60 anni. La sua vita si riassume nel sorriso, che fa scivolare le cose: spensierato, sincero, schietto, piacione, spavaldo, un po’ menefreghista e strafottente. Ha scritto un libro per Sperling & Kupfer, Ma non dovevate anda’ a Londra , in cui racconta un pezzo della sua vita, dagli 11 ai 32 anni.
Con tono divertito e tragicomico, racchiude quei vent’anni nella passione politica e in particolare nell’adorazione per il comunismo (illusioni comprese) da parte di sua madre, Rita Savagnone, la regina delle doppiatrici, che lo portò in viaggio nei Paesi dell’Est.
Partiamo da quel viaggio, che è la spina dorsale del libro. A 11 anni la politica sarà stata lontana dai suoi interessi.
«Mica tanto, alle elezioni, per dire, portavo i panini agli scrutinatori. Mamma mi ha sempre coinvolto. Sono passati 50 anni e ricordo ancora le sensazioni epidermiche di quel viaggio.
Un’esperienza incredibile, formativa, che assorbii come una spugna. Mia madre anziché portare me e mio fratello Federico a Londra, come ogni ragazzino sogna, ci caricò su una Fiat 128 in una rocambolesca avventura tra ex Jugoslavia, Romania e Bulgaria, alla ricerca di quello che ai suoi occhi sembrava il Paradiso perduto; sulla carta, uguaglianza e pari opportunità, l’Europa dell’est, periferia dell’impero sovietico».
Oggi cos’è la politica per lei?
«Non la vivo: la guardo e la piango, la amo e non la riconosco. Quando in tv vedo interviste a politici della prima Repubblica, mi sembrano degli statisti».
Il libro lo dedica a sua madre.
«Ha dato la voce a tutte le star di Hollywood, Liz Taylor, Shirley MacLaine, Lauren Bacall, Ingrid Bergman, Jane Fonda... Come attrice veniva dal teatro off, quello alternativo e politicizzato. Era una militante entusiasta del Pci. Era convinta che nel giro di qualche anno il cirillico sarebbe stato la lingua più parlata al mondo. Era una madre così diversa dalle altre, così fuori dalle regole, indipendente.
Avevamo un rapporto fisico, effusioni, coccole, abbracci.
In quel viaggio ci imbattemmo nella burocrazia insopportabile, nei negozi vuoti, nella tristezza. Lei fino all’ultimo difese quel sistema, l’importante sono i principi, diceva. Alla fine la realtà superò l’utopia e pianse. Tutto quello in cui aveva creduto si stava sgretolando. Eravamo tutti d’accordo: in Occidente se magna meglio».
(…) Chi me lo faceva il pollo con i peperoni in Romania?».
Suo padre, Ferruccio Amendola, altro grande doppiatore.
«Il paradosso era che per dare la voce a Tomas Milian lo pagavano dieci milioni di lire e per Robert De Niro (che fu sempre riconoscente con papà) uno. Andava così. Ho sentito i miei dirsi ti amo solo quando lavorarono insieme per New York New York di Scorsese, lui doppiava De Niro, lei Liza Minnelli. L’amore per il cinema è nato grazie a loro, ma tuttora non mi considero un cinefilo, sono più innamorato del mestiere in sé che del risultato. Ho fatto film impegnati (su tutti Mery per sempre) e, posato quel mattoncino, sono tornato a fare le cose che mi divertivano di più.
Al primo provino, per uno sceneggiato Rai, andai senza alcuna voglia di farlo. Chiesi a mio padre come dovessi dire le battute, mi disse: dille come se le dovessi dire a Franco. Era il mio migliore amico. Risposi, certo, perfetto, vabbè».
Quando si separarono i suoi genitori?
«Avevo un anno e nessuno mi ha mai spiegato bene perché si lasciarono. Papà lo vedevo nel weekend, non c’è stata una sera che non mi abbia dato la buonanotte al telefono. Lui era il divertimento, la Roma, il tennis, le carte, le magnate in compagnia.
A 14 anni andai a vivere da lui a Formello e alle sue cene con gli altri doppiatori volevano venire i miei amici per sentire le voci degli attori, Sean Connery, Robert Redford, mentre io volevo andare in centro; papà quando doppiava Er Monnezza-Tomas Milian diceva una infinità di parolacce e i miei amici mi ossessionavano per farsi mandare aff... da lui. Gli dicevo, pa’, devi mandare aff... un amico mio. E lui: ma perché, mi sembra una cosa da maleducati. Oggi mi diverte, allora mi sembrava una assurdità».
Il calcio, altra sua passione.
«Mi piaceva il calcio come sfottò e goliardia, negli Anni 80 allo stadio si andava con le damigiane di vino e le teglie di pasta, oggi non mi diverte più, a volte mi imbarazza vedere ragazzi così giovani che accedono subito a una ricchezza eccessiva. Nel ’90 feci Ultrà, divenne iconico ma mi creò vari problemi con la curva, fino allora avevo un legame forte col tifo organizzato. Fui attaccato dai romanisti».
amarsi un po claudio amendola 1
Cosa pensa del licenziamento di De Rossi?
«È la chiusura del cerchio per cui detesto il calcio di oggi. I padroni sono stranieri che ti comprano come una rosetta e ti fanno diventare un filone di pane, senza metterci gli ingredienti giusti. Sono disamorato, non della Roma ma del calcio, che appartiene alle piattaforme. Oggi del Manchester City contano più i tifosi che ha in Asia di quelli inglesi».
Lei dice di aver sempre guadagnato bene.
«Mi ritrovo in George Best, il calciatore: ho speso gran parte dei miei soldi per alcol, donne e macchine veloci, il resto l’ho sperperato. Viaggi, ristoranti esagerati, belle macchine, andare a vedere la Roma ovunque, orologi, e oggi nemmeno li porto al polso. Molti soldi li ho proprio buttati. Nessuna rivalsa, era il gusto di spenderli, la non preoccupazione per il domani».
Vivevate alla Balduina, quartiere di destra.
claudio amendola con il figlio foto mezzelani gmt 3182
«Sono cresciuto in anni folli dove tutto sembrava possibile, e in cui essere un ragazzo di destra o di sinistra poteva significare morire. Prima, da bambino, non avevo limiti, facevo delle vere schifezze, mi mettevo in bocca le gomme americane che trovavo per terra, cose così.
Lasciai la scuola dopo la terza media (fu una cretinata pazzesca), non mi andava di studiare, ma era un’altra Italia e se un ragazzo decideva di lavorare non era una follia, il lavoro c’era. Potevo fare qualunque cosa nel doppiaggio, facevo il montaggio per numerare le pellicole, ho curato quattro film di Terence Hill e Bud Spencer. Sono stato commesso in un negozio di sport, ho scaricato le cassette al mercato generale. Dopo, ho fatto qualche casino di troppo».
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Per esempio?
«A 18 anni mi arrestarono. Passai una notte a Regina Coeli per una bravata, avevo finito la benzina e la rubai da un’altra auto. Ebbi il processo, tre mesi con la condizionale e una multa di 300 mila lire».
Più tardi ci sarà la cocaina.
«Ho già fatto coming out. Come ne sono uscito? Una sera ero da solo con mio figlio Rocco. Stava male e per un attimo non ho saputo cosa fare. L’attimo dopo ero lucido e mi sono detto ora basta».
È cresciuto in una totale libertà.
«Sì, ho avuto un’educazione piena di amore e ossigeno culturale, che io non cercavo.
A casa nostra venivano Maurizio Pollini o Claudio Abbado, che era il cugino di mamma, oppure Giorgio Gaber».
Lei e Abbado, mondi lontani. Di cosa parlavate?
«Di musica mai, io poi ascoltavo il rock. Ma è legato alla mia prima adolescenza. Io mi chiamo Claudio per lui. Lo ricordo una sera a cena da noi con Pollini, mio fratello Federico, che è musicista, stava suonando il piano in camera sua e non riusciva a risolvere un passaggio. Lui e Pollini all’unisono dissero la nota giusta per superare quella difficoltà. Lo scrivo in quarta di copertina: io sono una persona fortunata».
(...)
Che cosa hanno rappresentato I Cesaroni?
«La sicurezza economica. E mi hanno dato una fetta di pubblico che non avevo, e che oggi è diventato adulto».
In che fase della vita è?
«Serena. Sono strafelice di poter raccontare vent’anni di gioventù in quel libro. Quel viaggio potrebbe diventare un film».
claudio amendola foto di bacco (4) claudio amendola e max tortora i cesaroni CLAUDIO AMENDOLA 56 claudio amendola claudio amendola