Pierluigi Panza per Corriere della Sera – Milano
Nel 2005 la richiesta di Riccardo Muti ai consiglieri della Scala di sostituire l’allora sovrintendente Carlo Fontana con Mauro Meli innescò conseguenze traumatiche. In quel falò furono bruciati i due sovrintendenti, il direttore musicale (Muti), un assessore alla cultura (Salvatore Carrubba) e il consigliere e presidente della Filarmonica, Fedele Confalonieri, che si dimise.
Si denunciarono oscure manovre e intervennero i sindacati. Ora, il Cda (scade a fine anno) sta per decidere un cambio di sovrintendenza che interesserà i prossimi anni, quando ci saranno un nuovo board e un nuovo sindaco. E con il profilarsi del difficile passaggio tra l’attuale sovrintendente, Alexander Pereira, e il possibile arrivo di Dominique Meyer, siamo di nuovo alle prese con situazioni intricate e poco spiegate.
giuseppe sala alexander pereira
Chiediamo al presidente di Mediaset (società tra i soci fondatori della Scala), Fedele Confalonieri, perché è così difficile sostituire un sovrintendente della Scala?
«Perché è un ruolo di grande potere e visibilità. Si fa riferimento a un board importante e si deve riferire al sindaco di Milano. Quindi c’è tutto: cultura, mondo aziendale, politica».
Quanto pesa un direttore musicale nell’indicazione del sovrintendente? Nel 2005 fu Muti a chiedere la sostituzione non il Cda…
«Nel 2005 quando Muti chiese di indicare Mauro Meli sovrintendente non è andata bene; Meli è durato poco tempo. Quindi credo che sia la politica che debba scegliere, ovvero il sindaco».
La politica?
«Alla fine gestisci tanti milioni, ricordo che erano circa 120 milioni, due terzi privati e altri pubblici. È una attività come una azienda. Pereira deve trovare fondi è, anzitutto, un soggetto economico che vive di questo; l’arte segue il bilancio».
Cosa le è piaciuto e cosa no delle gestioni di Lissner e Pereira, per ora?
«Ora frequento meno il teatro, ma quello che davvero detesto è l’invadenza, la prepotenza e la tracotanza dei registi. La recente Manon Lescaut non si poteva seguire, faceva ballare gli occhi. Io mi ricordo ancora la Tebaldi e Del Monaco: qui soprano e tenore si spostavano nel duetto avanti e indietro su una specie di vagone letto. I registi fanno questo con l’acquiescenza dei direttori d’orchestra. Strehler e Ronconi erano innovativi ma rispettosi della musica».
Nostalgia di Zeffirelli?
«Con Zeffirelli il palcoscenico era sempre strapieno, stra-ricercato: la Traviata è una mondana che non potrebbe concedersi cose di lusso come si è visto nel suo film o l’altra sera alla prima dell’Arena di Verona. Ma Zeffirelli era molto rispettoso degli autori. Prendiamo Wagner: si è addirittura costruito un teatro a Bayreuth non solo per fare gli spettacoli che preferiva ma anche per rappresentare l’ambiente come lo voleva. Oggi tanti registi rappresentano personaggi di Wagner come fossero nazisti. Si celebra tanto il regista italiano Damiano Michieletto considerato un genio, ma io ho visto un suo Ballo in maschera dove l’orrido campo sembrava il sovrappasso della stazione di Porta Genova».
Alcuni sostengono che sia stata la tv commerciale a creare queste condizioni…
«La televisione privata ha fatto pure qualcosa per la cultura. Noi siamo stati i primi a trasmettere i concerti della Filarmonica della Scala per decenni. Ma è il servizio pubblico che dovrebbe fare cultura in tv, come ha fatto con la Traviata dall’Arena di Verona l’altra sera, mi sembra ottenendo il 15% di share. In realtà, la Rai aveva come missione divertire, informare e formare. Ma la parte di formazione ora non si vede quasi più».
Ha conosciuto Pereira?
«Sì, credo che abbia fatto cose buone e altre meno buone. La mia critica è sempre sulla regia. Ne ricordo una tremenda, scelta ancora da Lissner, che fu la Traviata con regia di Dmitri Tcherniakov, con Violetta in campagna a tirare la pasta e tagliare la verdura. Ma anche l’Attila di Davide Livermore, scelto da Pereira, con i mitra spianati non l’ho apprezzato… Ho nostalgia di quei Lohengrin con le alabarde.
Ho visto un Lohengrin che iniziava con un geometra al tavolo da disegno con l’intenzione di costruire una casa: ma cosa c’entra con il figlio di Parsifal? Il bravo regista non prevarica. Strehler aveva ambientato un Falstaff con i colori delle cascine lombarde, regia bellissima. Ultimamente ho visto un Falstaff dove le allegre comari sembravano le ragazze di Sex and the city».
Nostalgia?
«No, è una cosa da vecchi. Ma un po’ di nostalgia per Muti ce l’ho. Ho sentito recentemente una sua direzione di Martucci e una Ottava sinfonia di Schubert come non si sente da nessuno. Secondo me la coppia Muti direttore con il sovrintendente Fontana ha funzionato bene finché sono andati d’accordo».
Avrebbe fatto entrare l’Arabia Saudita nel board ?
«Ma certo! Basta dettare le condizioni: sono soldi che arrivano. Forse ci voleva un iter diverso, non lo so, ma l’avrei fatta entrare nel club: mica si doveva fare una Aida con il Corano in mano!»
Ma il problema non è anche nei consiglieri della Scala; persone importanti, ma con poco tempo per il teatro.
«C’è Francesco Micheli che è critico, va ascoltato; magari ha posizioni radicali, ma è uno che ci capisce di musica. Uno come Giorgio Squinzi è una persona di altissimo valore e competenza. Poi ci sono Giovanni Bazoli e anche Claudio Descalzi, che sono dei numeri uno».
Ma non hanno tempo…
«Forse potrebbero delegare, ma di certo sentono i loro collaboratori e hanno a cuore il bene della città. Sono persone di valore, ma chi deve gestire è il sindaco».
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