Giulia Zonca per “la Stampa”
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La stand up comedy è la nuova analisi, terapia della risata: una molto specifica, contemporanea, urbana, sfrontata. Battute che graffiano senza sfottere, osservazioni che svelano esperienze personali e sentimenti di massa, e che in questo particolare periodo arrivano soprattutto da comiche. La stand up non ha sesso, ma la corrente attuale non è una coincidenza. Domani su Netflix si trova La verità, lo giuro, speciale di Michela Giraud in cui escono cose tipo «mi sentivo solida e sicura di me come qualsiasi struttura costruita dalla camorra».
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Altri sono stati distribuiti nei 190 Paesi della piattaforma prima di lei, Edoardo Ferrario, per esempio, con un monologo sulle birre artigianali applicate alle benzine in purezza che sarebbe assai utile recuperare per evitare di somatizzare il rincaro dei consumi o Francesco De Carlo, che ha levato diversi stereotipi all'italiano all'estero, però Giraud arriva proprio adesso mentre il genere ha preso il largo, finalmente anche qui, e nel mondo viene raccontato da e con voci femminili. Comiche che si guardano bene dallo sdraiarsi sulle questioni di genere, soggetto usato e già digerito.
Ormai si va sul fluido spinto, non come sessualità, come principio di parità reale, senza rincorsa e quote. Si ride liberi dall'appartenenza, sugli stessi temi, non universali, anzi, personalissimi eppure popolari: di una moltitudine che rivendica un cambio di passo, ritmo e orizzonte. E le comiche sono le più radicali. Come La favolosa signora Maisel, ora alla quarta stagione su Prime, con una quinta, l'ultima, già in cantiere. Lì si torna indietro, agli Usa di fine Anni Cinquanta e inizio Sessanta in cui l'idea di una donna su un palco che riesce a smaltire il lutto da tradimento con la risata cinica non è proprio alla portata di chiunque. Questo fa la stand up comedy, strappa.
Sempre su Netflix c'è Drôle, storia di quattro outsider dello spettacolo che si prendono la scena di Parigi o almeno di qualche pezzo. Personaggi disegnati dall'autrice Fanny Herrero che ci ha già abituati bene con Chiami il mio agente e qui si sale di livello perché si scende nella Francia più vera, la stessa che sta per affrontare le elezioni, vista attraverso una comicità coraggiosa, imparata in strada. O in lavanderia, dove provare il proprio sketch davanti a chi aspetta la biancheria. Repertorio fresco, audace, attuale che mostra, più di mille saggi sociologici, i figli di seconda e terza generazione. Si raccontano da soli a colpi di monologhi corretti all'infinito, a ogni nuova esperienza.
Nazir, franco algerino con residenza nella periferia più grigia, è interpretato dal rapper Younés Boucif: nelle sue barre fa ironia sul candidato Zemmour e come Nazir dice: «Ho bussato e mi ha risposto la madre per cui un arabo è un autista di Uber o un emiro. Indovinate in che categoria mi ha messo?». La star del gruppo è Aïssatou, (Mariama Gueye) tanto spavalda da acchiappare il successo grazie alla presa in giro della sua stessa vita sessuale.
Nei dettagli. La stand up non è cabaret, quel genere si è fatto risucchiare dai format alla Zelig, partiti altissimi ed erosi per nutrire il filone. Non si parla di show da intrattenitori sanremesi, non si ride di ciò che non si vede o si prova, non si vuole scioccare, si va sul brutale per trascinare. E non si punta a coinvolgere tutti, piuttosto a toccare nervi specifici. Gli e le stand up comedian non si rivolgono a una singola generazione, ma di certo escludono chi è ancora legato al battutismo su Berlusconi e o simili e chi sta fermo sul divano.
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È una comicità che appare sui canali a pagamento e tritura la quotidianità: non si ride se non si riconosce, è tutto materiale che parte dall'osservazione, dall'espiazione, dallo smaltimento di problemi insormontabili abbattuti con trovate che smontano. Altro che sberle. Programmi che avrebbero produzioni semplici ed economiche e che la tv generalista tiene a distanza. Lì siamo ancora a Villa Certosa e comiche già arrivate concretamente al territorio della parità non avrebbero spazio. O pubblico.
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