Paola Italiano per “La Stampa” - Estratti
È nato outsider Edoardo Bennato, e lo è rimasto nonostante il successo, i dischi venduti, i riconoscimenti come il Premio Tenco che gli hanno appena consegnato a Sanremo sul palco dell’Ariston.
Bennato, cosa significa canzone d’autore?
«Non significa niente».
Quindi come la fa sentire questo riconoscimento?
«Non me ne importa nulla dei premi. Mi importa di Tenco. Tu cosa sai di Luigi?».
Non c’ero, so quello che ho sentito e letto: lei ha delle cose da aggiungere?
«Io non lo conoscevo, ma da bambino lo osservavo e mi colpiva che fosse sempre un po' imbronciato, triste. Negli anni ho capito perché».
Perché?
«Perché anch’io ho dovuto avere che fare col carrozzone apparentemente dorato ma maleodorante della musica in Italia. Luigi si sentiva schiacciato da quel mondo in cui i gatti e le volpi infieriscono, i mangiafuoco si ritrovano, impresari e impresucoli fanno accordi».
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Battisti fu uno dei primi a credere in lei.
«Mi incoraggiava, si divertiva. Amava il blues, gli regalai un album di John Hammond, se lo consumò. Aveva un vantaggio, faceva solo le musiche. I testi sono la parte più difficile».
E negli Anni 70 si pretendeva l’impegno, vi volevano schierati: lei come li viveva?
«L’importante è dire quello che pensi nelle canzoni e non fare comizi, come quel Ghali, che peraltro è già meno peggio di tanti altri che fanno canzoni senza senso - almeno per me . Una certa fazione politica utilizza questi personaggi».
Ce l’ha con la sinistra: lei è di destra?
«No, veramente io la patente per fare questo mestiere l’ho avuta dalla sinistra a Civitanova Marche».
Cioè?
«Nel ’73 uscì il mio album e pensavo di avercela fatta. Ma dopo due settimane mi chiama il direttore della Ricordi e dice: “Nessuno lo compra perché la regola fondamentale di questo mestiere è la promozione. Quelli della Rai hanno detto che la tua voce è sgraziata, sgradevole. Il contratto è sciolto”. Ho imparato che in questo mestiere non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che tu riesci a imporre attraverso la promozione».
Lei alla fine ci è riuscito.
«Mi giocai l’ultima carta. Andai a Londra. Con chitarra, armonica, kazoo, tutto da solo feci dei pezzi punk».
Ante litteram.
«Il punk è un modo di fare musica nevrotico, schizofrenico. Tornai e mi piazzai di fronte alla Rai a cantare, da lì passavano gli addetti ai lavori. Mi presentarono al direttore di Ciao 2001 che allora era il vangelo delle nuove generazioni. E lui mi mandò al Festival di Civitanova Marche. Lotta continua, Avanguardia operaia: c’era tutta l’intellighenzia di sinistra. E da lì mi iscrissero a tutti i festival e raduni collettivi della sinistra. Loro sono stati in grado di farmi diventare una leggenda. Il capo della Ricordi mi chiese “Come hai fatto?”. E io: “Semplice: mi sono fatto raccomandare dalla sinistra”».
Uno di sinistra questo non lo direbbe.
«Nel 1977 mi chiamarono per la Festa dell’Unità a Modena. Avevo pubblicato Burattino senza fili: da avanguardia diventai nazionalpopolare. Solo che mi feci male giocando a calcio e tutta l’estate restai fermo con il gesso. E così lievitò l’interesse per me».
Che c’entra la Festa dell’Unità?
«Mi chiamò il Pci. A Modena sul manifesto c’era scritto: ore 19 Edoardo Bennato, ore 21 Enrico Berlinguer. Al pomeriggio arrivò Berlinguer. Aveva un vestito celestino, era simpatico, fortissimo. Mi disse: “Possiamo fare il contrario? Io parlo alle 19 e lei suona alle 21”. Questo perché erano arrivati 3-400 mila ragazzi da tutto il Nord Italia».
Per lei?
«Tu che ne dici? Dal dopoguerra in poi, senza tema di essere smentito, io dico le cose più a sinistra di tutti. Ma il giorno dopo a Pesaro ci aggredirono».
Chi? Perché?
«Gli stessi che interruppero il concerto di De Gregori, incendiarono il palco dei Led Zeppelin a Milano e tirarono molotov a Santana a Torino. Dicevano che la musica era gratis. E andavano da quelli di sinistra: da me, De Gregori, Venditti. Mica andavano nella discoteca a 100 metri dove c’erano Cocciante o i Pooh e si pagavano 10 mila lire. Figli di papà che da sempre fanno violenza, giocano a fare i rivoluzionari perché hanno la pancia piena. De Gregori a volte accettava il dialogo. Ma loro non volevano il dialogo. Solo sfogarsi».
Quindi lei si sente messo da parte dalla sinistra, ma al potere c’è la destra.
«Io non mi sento niente, io sono un privilegiato. Guai se mi lamentassi, sarebbe penoso. Ma bisognerebbe indagare sul perché i ragazzi oggi conoscono solo Viva la mamma o Notti magicheeeee...».
Falso: basta intonare “Seconda stella a destra...” e anche i sassi sanno andare avanti. Vale per molti suoi pezzi. E Il gatto e la volpe è la prima cosa che si impara su una chitarra.
«Sì, ok, pezzi di 45 anni fa. Uno potrebbe chiederti: quel Bennato com’è che non si sente più? Cosa risponderesti?»
Che nell’era digitale il mainstream lo impongono i clic dei ragazzini?
«Il clic in streaming lo fai se ne hai sentito parlare. Io fin dalla prima ora sono stato costretto a fare il manager di me stesso. Nel ’96 mi resi conto che da anni facevano il Pavarotti & Friends. E pensai: ma perché ci vanno tutti e Bennato no?».
E quindi che fece?
«Chiamai Gianni Minà, volevo il numero di Pavarotti. Mi disse: “So già quello che vuoi, ma è inutile, neanche quest’anno tu ci sei”. Insistetti. Pavarotti mi rispose cordiale: “Venga a trovarmi a Modena”. E io andai col quartetto d’archi. Improvvisai un miniconcerto».
EDOARDO BENNATO GIANNA NANNINI E MARADONA
E lui?
«Un attimo di silenzio, poi si girò verso il suo entourage e disse solenne: “Quest’anno a Pavarotti& Friends c’è anche Bennato”.
Ha vinto lei.
«Ma capisci? Nel 1996 con molta umiltà, arrivai da Pavarotti e feci un provino per lui. Io, che fui il primo a fare 15 stadi pieni di seguito, in un mese, Ma nessuno lo dice».
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