Marco Molendini per Dagospia
Non era mai capitato a Chet Baker, inguaribile junkie che nella vita ne aveva passate di tutti i colori, di venir accusato di essere un rappresentante dell'establishment bianco americano.
Chet, sotto un cappello di paglia, stava suonando a Città di Castello. Era il suo ritorno dopo anni bui, nerissimi. Nella folla c'era di tutto, contestatori, autonomi, appassionati, sballati, hippies veri e di risulta, pugni alzati che inneggiavano al black power, approfittatori d'occasione.
Chet continuò a suonare. Del resto c'era poco da meravigliarsi del clima bollente di quel festival.
Count Basie era stato contestato da un collettivo come agente della Cia, Sarah Vaughan, sublime black voice di Newark, era stata sbeffeggiata come artista borghese da un ragazzo che si era spogliato davanti a lei, quel gigante di Elvin Jones, durante il suo set, inviava dei fuck you agli esagitati del pubblico, una processione era stata deviata dalla folla che voleva ascoltare Charles Mingus.
mark knopfler umbria jazz 2010
Carlo Pagnotta, il samurai di una rassegna nata per caso e per passione, difendeva il palco menando fendenti fino a prendere a prendere a cazzotti il mitico Cavallo pazzo, scalmanato contestatore tanto per cambiare.
Umbria jazz era al suo terzo anno di vita, quando Chet suonò a Città di Castello, e stava già scoppiando di salute, nel senso vero: cresciuta subito a dismisura, esplodeva di successo e proteste.
Espropri, spese proletarie, devastazioni. Rischiava di chiudere appena nata e chiuse, a un certo punto. Eppure, quegli epici, confusi, avventurosi, riottosi anni 70, hanno acceso la leggenda del festival di jazz italiano più grande, conosciuto e anomalo.
Così anomalo da sconvolgere il piccolo mondo antico del jazz, una congrega di fan incalliti trasformata in popolo informe e variopinto, pronto a scaldarsi verso chi appare come amico del sistema, e che sceglie come idolo il sassofonista Sam Rivers che duetta con le campane del duomo, alza il pugno, cavalca l'onda (una sera per placare la folla che contestava Stan Getz chiese mille dollari in più per tornare sul palco e riportare la calma).
umbria jazz a citta di castello 1975
Quelle insofferenze lontane, assieme all'indelebile nuvola di polvere di stelle lasciata negli anni da giganti perduti, da Basie a Mingus, a Stan Getz, Miles Davis, Keith Jarrett, Horace Silver, Art Blakey, Dexter Gordon, Dizzy Gillespie, Lionel Hampton, Weather report, Chick Corea, Tony Bennett e via dicendo sono poi diventate l'aura indelebile di una storia che dura da cinquant'anni.
Un fenomeno musicale, sociale e di costume, un fenomeno più forte dei suoi fortissimi cartelloni che, accanto all'aristocrazia del jazz, ha lanciato talenti sconosciuti e ha fatto crescere e conoscere il jazz italiano. Una forza si può spiegare solo con la perfetta coincidenza fra quella manifestazione, nata itinerante e gratuita per caso (l'iniziativa di un club di appassionati guidata da Carlo Pagnotta e l'improvvisa disponibilità economica della regione, appena formata dopo il referendum del 1970), e il sentimento del momento.
Una sovrapposizione tanto perfetta da cambiare il modo di ascoltare la musica, mescolando da subito il pubblico e intrecciando i confini delle varie lingue musicali. Una consonanza capace di offrire un modello promozionale generalizzato, con i festival e le rassegne, non solo jazz, pronti a proliferare nel segno della musica abbinata alla promozione turistica .
Poi, dopo quell'avvio memorabile, quando il jazz tendeva a esaurire la spinta propulsiva della rivoluzione, Umbria jazz ha seguito la sua fama di kermesse di massa mescolando vocazione elitaria e vincolo popolare, lo starsystem del jazz coi Rem, con Carlos Santana, Eric Clapton, Prince, Mark Knopfler, Lady Gaga, Burt Bacharach e con i protagonisti del fronte latino come Tito Puente o Machito, Caetano Veloso, Gilberto Gil il maestro Joao Gilberto.
phil collins a umbria jazz 1996
Così UJ ha provato a tenere il passo dei tempi, archiviando le turbolenze dei cinque festival degli anni 70, riprovandoci con l'avvio degli anni 80, trovando la via finale dalla nuova esplosione dell'87 con l’incontro di Sting e Gil Evans allo stadio, occasione riuscita da tutti i punti di vista di mettere insieme un grande ricercatore del jazz con un artista popolare (il concerto venne perfino trasmesso in diretta su Rai 1 in prima serata, con la Rai ancora faceva servizio pubblico).
La contaminazione ha retto la popolarità di UJ, ma la diversità è stata tenuta in piedi da quella porzione di festival gratuito che ancora oggi dà vita al clima di festa di piazza e di strada aperta a tutti, assieme ai concerti strettamente jazzistici al Morlacchi o alla Sala Podiani e al prezioso contributo dei club, raccolti spazi notturni dove sono stati coltivati personaggi che poi sarebbero diventati a loro volta delle star come Diana Krall e Brad Mehldau, fino alla recentissima grammy winner Samara Joy.
Una miscela durata fino a oggi con il festival che compie 50 anni e si trova davanti all’ultima sfida, quella del futuro. Se Umbria jazz ha tenuto, pur affrontando alti e bassi, lo deve certamente a tutto quello che ha vissuto, ma anche alla tigna del suo fondatore, un formidabile quasi novantenne capace di fare ancora gli scongiuri verso chi mormora «Pagnotta non è eterno». Nessuno ha immaginato un dopo Pagnotta, ma la certezza è che, per Umbria jazz, i secondi cinquant’anni saranno più complicati dei primi cinquanta.
andrea mingardi umbria jazz 2007
Intanto da venerdì si ricomincia, ci sono tre ultraottantenni Bob Dylan, prima star della prima serata, Herbie Hancock, Paolo Conte, in mezzo il jazz di Brad Mehldau e Brandford Marsalis, il rock di Ben Harper, il blues di Joe Bonamassa, il pop di Mika, la nostalgia dei Police di Stewart Copeland, l’omaggio a papà Clint di Kyle Eastwood, il piano di Stefano Bollani, il talento di Rhiannon Giddens (in Italia ancora da scoprire) la grammy winner Samara Joy, l’imperdibile duo Enrico Rava e Fred Hersch, eccetera, eccetera. La festa ricomincia.
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