Antonio Gnoli per la Repubblica - Estratti
Mi dice che la parola buio le fa pensare al vestito troppo stretto. È una parola che soffoca, aggiunge. A volte mi fa paura, conclude. A Nada Malanima, per tutti Nada, in questo momento gli occhi sorridono. Perché quel buio lo ha allontanato. Forse ritornerà, perché a volte ritornano. Ma intanto ne ha preso le distanze, se lo è sfilato di dosso. E sorride. Nada ha scritto un piccolo e sorprendente romanzo Come la neve di un giorno (Atlantide). Mi ha incuriosito perché lì dentro, in mezzo a quelle frasi c’è il suo mondo, sognato in parte e anche vissuto.
Oggi ti senti più scrittrice o cantante?
«Scrivo i testi delle mie canzoni e la musica. Ma scrivere – sia un racconto o un romanzo – è avere un’ambizione diversa. L’anima è la stessa. Ma cambia il ritmo, la struttura, starei per dire la musica».
Vivi in una grande casa, in mezzo alla natura, con il tuo compagno Gerry e una quantità di gatti impressionante. Che stile di vita ti sei ritagliata?
«Una vita quieta. Lontana dal casino, dai rumori, dalle chiacchiere eccessive. Mi piace ritagliarmi uno spazio nel giardino, sedere e guardare la vastità del paesaggio».
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Hai chiamato il tuo romanzo “Come la neve di un giorno”. Perché?
«Perché siamo una presenza nel mondo che passa e se ne va. Forse per questo non riesco a godere fino in fondo della cose che mi circondano».
Quando una cosa sparisce comincia a mancarti?
«Mi accade soprattutto con le persone. Quelle che non ci sono più, quelle alle quali sono stata affettivamente legata, mi mancano e generano sofferenza. Allora devo pensare che le persone che non ci sono più siano andate in un posto migliore del nostro».
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Il femminile è dominante nei tuoi romanzi e nei testi delle tue canzoni. Oggi si discute molto degli effetti del patriarcato. Che idea ti sei fatta?
«Oggi il patriarcato è qualcosa di residuale. Se penso alle famiglie normali non vedo più quelle gerarchie ferree con il maschio in posizione dominante. Nella mia famiglia, ad esempio, la figura più forte era quella di mia madre, mio padre sempre in posizione defilata».
Che rapporto è stato con i tuoi genitori?
«Mio padre si alzava alle cinque del mattino per andare a lavorare in campagna. A volte cercavo di seguirlo e mia madre si arrabbiava. A me sembrava un modo per dire che gli volevo bene e non capivo la reazione della mamma. Ma certo non era giusto per una bambina desiderare quelle cose. Avrei reagito così anch’io».
Hai raccontato invece del rapporto più complesso con la figura materna.
«Era una donna volitiva, forte come ti ho detto. E fragile. Ma non so quanto preparata al successo clamoroso che ebbi a soli 15 anni. E quando la mamma cominciò a stare male , a perdere la memoria, mi resi conto che stava accadendo qualcosa che non riuscivo però a mettere a fuoco. Nel tempo la situazione sembrò stabilizzarsi. Fino a quando negli ultimi due anni precipitò. E tutti dissero che aveva finito di soffrire».
Hai messo insieme il successo con la malattia di tua madre. È così?
«Di sicuro sia lei che mio padre erano sorpresi del clamore che mi attorniava. Ma quella davvero disorientata ero io. E in effetti quando la mamma morì, il mondo intorno mi crollò addosso».
Perché?
«Non lo so. Erano tutti preparati all’evento tranne me. Il fatto che non fossi in grado ad accogliere la sua fine dipendeva anche dal fatto che non ero pronta a gestire il successo. Fu mia sorella ad avvertirmi che la mamma se ne era andata».
A quel punto?
«Sentii come un peso enorme trascinarmi verso il basso e più scendevo e più non riuscivo a vedere cosa c’era intorno. Come due persone diverse che non riuscivano a convivere sotto lo stesso tetto».
Intendi la parte positiva e negativa?
«Sì. Quella negativa inghiottiva l’altra».
Cosa avresti voluto fare?
«Uscire da quel buio, e invece niente. Restai chiusa in casa per settimane. Attonita, schiantata sul letto».
Eppure il rapporto tra voi non era stato facile.
«Litigavamo spesso. Ma era la nostra modalità di stare assieme, quasi una recita».
Tuo padre?
«Era morto già da alcuni anni. Perciò mi sentivo completamente sola. L’unica cosa che da un certo punto in poi mi ha dato sollievo sono state le passeggiate nel bosco con i miei cani. Ancora una volta la natura svolgeva il suo compito: allentava il dolore e schiariva il mio sguardo».
Come riconosci il buio?
«È una zona strana, al limite delle tue possibilità. Perfino feconda, come può essere un letargo doloroso d’inverno. Ma devo stare attenta e tenerla a bada. Ho sempre cercato, anche nei momenti più duri, una via di uscita».
Immagino che scrivere e fare musica aiutino.
«Scrivere per me è come accendere una lanterna nella parte più profonda e buia di me. Da lì nascono le mie visioni, le mie parole, i miei suoni, i miei drammi. Se non ci fosse la consapevolezza del dramma della vita perché scrivere o cantare?».
Ti sei sentita una predestinata?
«A cosa? La verità è che il successo così repentino e totale ha messo in dubbio chi fossi veramente. Non morivo dalla voglia di diventare famosa».
Ma neppure di restare nell’anonimato. No?
«Sai, il successo non è la massima onorificenza che ti può capitare nella vita. Magari lo pensavo all’inizio ma quando vedevo che la mia esistenza era in larga parte in mano agli altri, con il briciolo di consapevolezza che mi restava, cercavo di non lasciarmi travolgere».
In quel successo ci sono state anche cose belle.
«La più bella, a parte Gerry che ha cambiato la mia vita ed è il compagno con cui sto insieme da più di quarant’anni e senza di lui davvero non saprei che fare, è Piero Ciampi. La sua malinconia e marginalità, il suo desiderio di essere senza esserci mi hanno svegliata dal sonnambulismo. Lo incontrai che avevo 18 anni. Il nostro rapporto, dal punto di vista musicale, non fu un successo. Ma lui mi ha dato quella sensibilità diversa che ancora mi porto addosso».
Hai raccontato di una collaborazione musicale a tre: tu, Ciampi e Paolo Conte.
«Per i discografici il rapporto con Piero non funzionava. Perciò il direttore della RCA ci affiancò Paolo Conte. Allora era un avvocato e musicista sconosciuto. Si dimostrò grande professionista. Diventammo amici. Purtroppo quando alla fine realizzò le canzoni dell’album, Ciampi diede di matto. Si ingelosì».
Perché?
«Credo non tanto per la musica che aveva una sua forza suggestiva, ma per l’uomo. Per l’eleganza e i modi con cui parlava. Tutto il contrario della trasandata disperazione di Piero».
Ho visto la dedica del tuo romanzo a Fausto e Pierluigi: «gli amici cari che non ti lasciano mai».
«Non ci sono più. Pierluigi mi ha aiutato a venir fuori da situazioni complicate. Era un matematico, traduceva e gestiva una piccola casa editrice. Mentre Fausto Mesolella grande chitarrista della Piccola Orchestra degli Avion Travel mi ha aiutato nel lavoro e nella vita. Gli piacevano le mie canzoni e il modo in cui cantavo. Cominciò una bella collaborazione durata 25 anni. Quando è scomparso ho sentito di nuovo quella mancanza che scava e amplifica il vuoto intorno a me. Fausto è stato il più grande amico e il più grande dolore».
Hai però la forza di tradurre tutto questo in scrittura e musica.
«Ho la sensazione, ogni volta che scrivo o compongo, di farmi largo in quel vuoto, attraversarlo come si attraversa un deserto. Soprattutto la mia musica è un labirinto di suoni che danno l’idea di questa epoca così sventurata e inutilmente complicata».
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Alla fine chi è Nada?
«Sono roccia friabile, in questo come mia madre. In fondo è la ragione per cui in tutto quello che penso, scrivo e canto c’è soprattutto il mondo femminile».
Oggi molto più rivendicativo e presente di un tempo.
«Siamo donne senza più eroi né padroni. A costo di risultare troppo scontata mi viene da dirti che ogni volta che mi sono sentita persa non mi sono mai arresa e qualcosa di bello e di magico è accaduto».