Luigi Mascheroni per "il Giornale"
Siamo nell' epoca della serialità televisiva. Già.
Ma quale? C' è la serie episodica classica (da Hitchcock a Colombo), c' è lo sceneggiato italiano che va dagli anni '60 alla Piovra, ci sono le serie serializzate (il caso Twin Peaks, che fa impennare il dibattito attorno alla cosiddetta «televisione di qualità»), c' è la comedy (I Simpson, e dopo non fu più come prima), la serialità generalista di qualità (l' intellettualistica Lost), la storia infinita della soap opera (citiamo l' italiana Un posto al sole), e poi i teen drama, le serie a «responsabilità sociale» (il nostro Don Matteo), le inarrivabili serie britanniche (last but not least, Downton Abbey), la serialità dei canali cable e delle nuove piattaforme, Hbo docet (come Chernobyl) fino all' era Netflix e Disney+: The Crown o The Mandalorian...
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Fare ordine - ragionato - in 70 anni di produzione di storie di finzione per la tv, non è semplice. Ma necessario. E così un pool di esperti e di accademici, coordinati da Armando Fumagalli, direttore del Master in «International Screenwriting and Production» dell' Università Cattolica di Milano (un' eccellenza nel campo della scrittura e della produzione delle serie tv), ha provato a mappare l' universo della fiction televisiva - tra ascendenze, legami, innovazioni, creatività e filiazioni - con un' opera che mancava nel panorama editoriale italiano: una Storia delle serie tv in due volumi (Dino Audino editore), dagli anni '50 all' era dei canali cable e delle nuove piattaforme.
Professor Fumagalli, è vero o è un luogo comune che oggi le serie tv, sul piano della diffusione, della qualità e dell' immaginario culturale, hanno ormai conquistato lo spazio del cinema?
«In parte sì. Le serie tv occupano sempre più lo spazio del cinema medio e di qualità. Il cinema invece continua a presidiare lo spazio dei blockbuster, dei film per famiglie e del cinema molto autoriale, cioè i film da festival».
Perché sceneggiatori e capitali si spostano sempre più dal cinema alle serie tv?
«Perché le nuove piattaforme e le nuove forme di distribuzione hanno cambiato completamente le cose, riducendo il ricorso a intermediari nel processo tra la produzione del prodotto e lo spettatore. Si dice disintermediazione. Vuol dire che prima, ad esempio, qualcuno crea La casa di carta, che nasce come serie nazionale, ha successo e poi qualcun altro, Netflix o Amazon, la fanno diventare un fenomeno globale. Ora invece Netlix finanzia direttamente la serie e dopo un mese arriva in 180 Paesi. Pensiamo a Zero, la serie italiana prodotta da Fabula Pictures e Red Joint Film per Netflix.
È un processo che permette maggiori investimenti sul singolo prodotto, e che rende maggiori guadagni rispetto a un film tradizionale».
Si può fare per le serie tv quello che si fa per la letteratura: stabilire un canone, distinguere dei generi, individuare dei classici?
«La nostra Storia delle serie tv ci prova. Abbiamo mappato generi, formati, strutture narrative. Messo in luce innovazioni, continuità e strutture di genere, e illustrato anche le tecniche di scrittura e di produzione di storie che hanno appassionato milioni di spettatori nel mondo. E poi, per arricchire l' approccio storico, abbiamo proposto l' analisi approfondita di una serie emblematica del periodo o del genere di riferimento. Per capire perché ha tanto successo».
Un esempio?
«Downton Abbey. Anche se è ambientata nell' Inghilterra del 1912, per struttura del racconto e scrittura dei personaggi - ognuno di loro ha un obiettivo preciso e si trova di fronte a un ostacolo altrettanto preciso, tutti con un tono di fondo positivo, non ci sono depressi, maniaci o criminali... - è una serie più vicina a The West Wing che a tante serie in costume».
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I fenomeni più interessanti degli ultimi anni?
«Di solito si parla per lo più di alcune serie autoriali, come The Young Pope e The New Pope. In questo caso Hbo sceglie un autore già consacrato dal cinema come Paolo Sorrentino e crea un prodotto autoriale ma per la televisione. Ma prodotti più tipici della serialità televisiva oggi sono Bridgerton o La regina degli scacchi, basata sul romanzo di Walter Tevis. Poi serie nazionali come Lupin prodotto da Gaumont, una storica casa cinematografica francese. Oppure i teen drama, come Stranger Things, che sfrutta una certa nostalgia degli anni '80...».
Si può dire che gli autori e gli showrunner valgono più degli attori nel successo di una serie tv?
«Se la serie è breve, il grande attore ha una capacità di illuminare il prodotto e di richiamare pubblico ancora molto alta: penso a Dustin Hoffman per I Medici. Ma in generale, sì: ormai conta più l' autore o lo showrunner, una figura che in Italia non c' è ancora. È il responsabile di tutte le scelte artistiche: regista, attori, sceneggiatura. Diciamo che è un produttore creativo».
Parliamo dell' Italia.
«La serialità italiana sta crescendo e fa cose molto interessanti. Penso a Leonardo: da noi ha ricevuto critiche ma è stata venduta in oltre cento Paesi, portando l' Italia dentro un mercato globale. O Doc. Nelle tue mani che in Francia ha vinto il prime time. E per quanto riguarda la Rai consideriamo che i suoi prodotti seriali raggiungono in media uno share maggiore rispetto alle fiction nazionali degli altri Paesi, come Francia o Spagna...
Il commissario Montalbano fa 10-11 milioni di spettatori, che in rapporto alla popolazione italiana è come se negli Stati Uniti ne facesse 55...».
Vizi e pregi delle serie italiane?
«I limiti sono in una certa pigrizia nella scelta degli attori: ci si affida troppo ai soliti nomi noti, e forse servirebbe un lavoro di casting più attento, cercando di spiazzare lo spettatore. I pregi sono una forte connessione col Paese nella scelta degli argomenti, che interessano, sono sentiti - ed ecco i personaggi legati alle radici della nostra storia - oppure, al netto di possibili cadute nel buonismo, che provano a toccare problemi reali, come il razzismo, o il bullismo, o i disagi famigliari... e ci sono mille episodi di Don Matteo in questo senso. Se ci pensiamo, negli Usa le serie avranno un grado qualitativo maggiore, ma sono piene di violenza, di conflitti estremi...».
Le serie più importanti della storia, per Lei?
«Ne cito qualcuna, magari non le più belle ma quelle che hanno imposto un immaginario o una svolta tecnica negli ultimi 20-25 anni. A livello internazionale dico NYPD, americana, prodotta dal 1993 al 2005. E forse anche E.R., il medical drama creato da Michael Crichton. Poi Friends tra le sitcom. Forse Lost.
E tra le ultime Downton Abbey, This Is Us, serie creata da Dan Fogelman, e... beh, sì, anche se a me non è piaciuta, Il Trono di Spade per il genere fantastico».
Le novità in futuro per le serie italiane?
«Le troveremo nei generi: più fantasy, forse il western, e ancora più adventures».
Meglio un libro o una serie tv?
«Tra I promessi sposi e Beautiful, meglio il libro. Tra un romanzo medio italiano di oggi e The West Wing, meglio la serie tv».
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