«Sono qui per godermi tre ore di tranquillità, un bel film, una bella serata». Così Matteo Salvini, in smoking e scarpe lucide, con la compagna Francesca Verdini, all’arrivo all’imbarcadero del Excelsior per partecipare alla premiere di Padrenostro, primo film italiano in concorso alla Mostra di Venezia, diretto da Claudio Noce e interpretato da Pierfrancesco Favino.
«È la terza volta in vita mia che metto lo smoking, dopo la Scala e il Quirinale, e non sono a mio agio, ma l’ho fatto per lei», ha detto Salvini rispondendo alle domande dei cronisti. Al suo fianco, in completo di velluto nero, la Verdini. Si è incamminato per raggiungere l’ingresso della Sala Grande, indossando una mascherina con il Leone di Venezia, fermandosi per selfie e autografi, ma evitando la passerella del red carpet.
FAVINO
Valerio Cappelli per corriere.it
«Io pensavo che mio padre non fosse lì, ho vissuto tanti anni con questo senso di paura». Nel 1976 a Roma Claudio Noce ha assistito all’agguato in cui i Nuclei Armati Proletari ferirono il padre poliziotto, il vicequestore Alfonso Noce. Ci fu uno scontro a fuoco, morirono il poliziotto Prisco Palumbo e uno dei terroristi, Martino Zicchitella.
Erano gli anni dei terroristi, Moro sarebbe stato sequestrato e ucciso dalle Brigate Rosse due anni dopo. «Ma questo non è un film sugli Anni di piombo», dice il regista Claudio Noce, in gara alla Mostra di Venezia con Padrenostro. In sala c’è il leader leghista e ex ministro dell’Interno Matteo Salvini. «Io non l’ho invitato personalmente — commenta il protagonista Pierfrancesco Favino — è venuto in forma privata e nessuno gli può impedire di entrare.
Conoscendo la sua capacità di essere presente nei momenti importanti, mi fa piacere. In termini di manipolazione non c’è possibilità: non è un film pro poliziotti o pro terroristi, ma su due figli, degli uni e degli altri». E il segretario della Lega non commenta: «Favino è un bravo attore, non sono venuto a manipolare nulla, il film l’ha scelto la mia compagna Francesca Verdini».
Era una mattina di dicembre. Claudio aveva un anno e naturalmente non ricorda nulla. Nel tempo i genitori, con i tre figli, scelsero la strada della rimozione, non dire, non parlarne. Claudio non condivise quella decisione. Però: «Non do a loro delle colpe, era il loro modo di proteggerci, non nutro nessun tipo di rancore. Quella rimozione doveva essere scardinata, per attraversare la paura e vincerla».
Il film è lo sguardo di un bambino trafitto, «avevo voglia di scrivere una lettera aperta a mio padre, e trasformarla in un messaggio». Un messaggio riconciliatorio. Favino è del 1969, ha cinque anni in più del regista, hanno un analogo retroterra esistenziale: «Io dovevo andare a letto dopo Carosello e sembravo non esistere più, ma ricordo le conversazioni dei miei in salotto, che parlavano degli attentati come se non ascoltassi; appartengo a una generazione messa di lato, non avendo vissuto niente non avevo la possibilità di dire qualcosa. Ho vissuto costruendomi una laicità, una possibilità di amicizia con chi stava dall’altra parte delle barricate. Il significato politico del film è questo».
C’è l’amicizia tra due bambini, il figlio del poliziotto, impersonato da Mattia Garaci, e il figlio del terrorista, Francesco Gheghi che dice la nuda verità strappando tenerezza: «Noi veniamo da adesso, per noi è una storia lontana». È l’incontro di due giovani anime alla ricerca del padre; cercano, anche giocando, di ricomporre il drammatico puzzle delle loro radici.
Attore e regista sono figli di uomini del Sud dediti al lavoro, non abituati a parlare di sentimenti, all’epoca i capofamiglia erano così: «Non ho avuto bisogno di incontrare il padre di Claudio, mi sono rivisto figlio e in lui ho riconosciuto mio padre», dice Favino. Hanno entrambi vissuto i silenzi dei genitori, fino al ritrovamento di una voce:
«Da bambino sono diventato uomo, padre, conosco lo strumento della fantasia, della ribellione, quando non capisci le emozioni e ne sei travolto». Buscetta, Craxi, ora un vicequestore: Favino narratore della nostra Italia? «Non la vivo così, ci sono casualità, è vero che alcune storie sono archetipi, il rapporto padre-figlio…Certo che coincidenza l’aver trovato la casa di Alfonso Noce nella strada in cui ho vissuto da bambino».
Claudio ha vissuto in famiglia quasi dieci anni con la scorta: com’è, vivere così da bambini? «Si mischia col gioco e l’immaginazione, le armi diventano qualcos’altro, c’è una relazione con le persone che difendono l’eroe ferito, tuo padre. Ma la scorta non mi faceva sentire più sicuro, al contrario, sentivo il pericolo proprio perché c’erano quegli uomini armati accanto a me».
I genitori del regista (la madre è Barbara Ronchi) sono contenti e orgogliosi di un film «emotivo e sentimentale». Uscirà il 24 per Vision Distribution e verrà consegnato al pubblico cominciando a ricucire lo strappo causato dal Covid-19, cercando una tenitura lunga nelle sale.
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