Testo di Marco Bracconi per Robinson – la Repubblica
Sentire che esisti. Questa è la sola cosa che vogliamo: sentire di esistere ». A settant' anni Flavio Bucci, l' uomo che fece diventare il pittore Antonio Ligabue uno di famiglia e il Diario di un pazzo di Gogol' un trattatello di saggezza, è un fascio di nervi e di ossimori. Il suo corpo è provato da un passato di amicizia con alcol e cocaina e da un presente di cinquanta sigarette al giorno, eppure quel corpo trasmette la solidità magnetica di chi da decenni è abituato a stare sul palcoscenico.
Parla di politica e società con la radicalità di uno studente del Maggio francese, ma dal suo eloquio più che espressionista non filtra un solo alito di rabbia. Vive in una casa-famiglia ai margini della metropoli, sul bordo di un litorale che fuori stagione amplifica la voce della solitudine, però scordatevi la storia dell' uomo ricco e famoso che ha perso tutto: seduto al bar di Passoscuro, anonima località a nord di Fiumicino, c'è sì un artista in disgrazia, ma la disgrazia non c' è, non è qui, è solo una parola appiccicata sopra un copione scritto da altri. «Ognuno è quel che è, e non è di nessun altro. Questo è finora il mio viaggio, punto. Mi mancano molte cose, ma non ho nessun rimpianto. Sulla droga, la sessualità, e perfino ormai nella politica, domina un' ipocrisia disumana, visto che disconosce ciò che siamo ».
Un viaggio che dal 1977, l' anno in cui indossa magnificamente i panni di Ligabue, attraversa gli anni Ottanta con Maledetti vi amerò di Marco Tullio Giordana e La Piovra di Damiano Damiani, ruoli da caratterista di gran lusso e maschere che in teatro, negli stessi anni, prenderanno i nomi di Riccardo III, Serafino Gubbio operatore, Argante malato immaginario. Ora la notizia è che dopo anni di oblio dalle scene e dai set - solo un paio di apparizioni da quando, nel 2008, interpretò Franco Evangelisti nel Divo di Sorrentino - Flavio Bucci ha recitato di nuovo in un film che in qualche modo è anche autobiografico. «Autobiotragico », mi corregge ridendo: «Il protagonista è un uomo normale che insegue il sogno di fare l' attore, anzi che vive in esso, perché il sogno non è affatto un sogno, è quello che lui è veramente. È esattamente ciò che penso della vita e del mio lavoro, anche io sento di " essere" fino in fondo solo quando lavoro» .
Tanto per cambiare un altro ossimoro, visto che il sognatore a occhi aperti di Il Vangelo secondo Mattei, commedia ambientalista girata in Lucania, è un pensionato di Matera teoricamente più ordinario di un borghese piccolo piccolo.
Il piccolo borghese che invece lui non è mai stato, con una vita addosso equamente divisa tra l' impegno e la sregolatezza che ti porta a bruciare rapporti, salute e denaro. Basta che non si dica - alla Vasco Rossi - siamo solo noi: «Il mondo è pieno di droghe, accettate, tollerate o bandite. Per quanto mi riguarda dico che l' attore è uno schizzo fuori dal coro, l' inquietudine è il suo tratto dell' anima, il palcoscenico la sua droga. Ma non puoi stare sempre in scena, io ai tempi guadagnavo in teatro anche due milioni di lire a serata e rifiutavo spesso offerte dal cinema, non ho mai rinunciato a una tournée per un film». Tra la droga che sta dietro il sipario e quella che trovi all' angolo della strada il passo può allora essere breve, rapido e senza ritorno. È così che i soldi (tanti) diventano pochi e dalla quinta della vita spuntano l' usuraio, i debiti, il finale che non si decide ad arrivare.
Certamente "autobiotragedia" allora, e dalla prospettiva di un baretto fuori dal mondo anche parecchio amaro. Però se è vero che l' uomo muore è altrettanto vero che l' attore e il suo personaggio non muoiono mai, è il miracolo del teatro che si rinnova, la sua eterna sfida all' immortalità.
Forse per questo Bucci declina l' amarezza guarnendola di didascalie - può essere altrimenti per un attore? - ma senza cedimenti al vittimismo. «Mi manca il lavoro, tanto. Non sarei più in grado di stare due ore sul palco, non per come intendo io fare l' attore, una immersione totale che ti costa grande dispendio di energie. Ma vorrei lavorare ancora, perché il lavoro è sempre stato il mio modo di partecipare alla vita civile, l' occasione per le occasioni di dialogo. Poi da quel che vedo non mi pare che in giro ci sia una gran voglia di dialogo, ecco. Mi pare invece che si passi il tempo a occultare quello che non è occultabile, il naturale divenire delle cose della vita».
Il " Capoccione", come Flavio Bucci chiamava il suo maestro Elio Petri, sarebbe stato d' accordo. « Da lui ho imparato che se il cinema ha un senso è quello di poter intervenire sulla realtà, di prenderla e metterla in relazione con il passato. Se non hai memoria non hai nulla, puoi anche fare il film più bello del mondo ma non avrai mai un testo. E se non hai un testo non hai nulla da dire » . E infatti nella ridotta da personaggio dostoevskijano in cui oggi si ritrova è ancora innamorato dei testi dei grandi scrittori russi, appunto Dostoevskij, Tolstoj, l' adorato Gogol' e poi Shakespeare (« se vai a stringere la nostra esistenza è essere o non essere, è tutto lì » ), il Pirandello di Mattia Pascal e quel Leopardi poeta inarrivabile perché « in ognuna delle sue liriche ci puoi trovare una grande questione umana »
Anche l' amore, ci trovi, solo che quella è parola adorna di troppe spine se la pronunci in una terra desolata, una di quelle dove il tempo scandisce la cognizione dell' assenza senza trovare ostacoli. « Ho avuto due mogli, due figli dalla prima e uno dall' attuale, olandese, che però in Olanda ci vive. Ci vediamo ogni tanto, ci sentiamo spesso. Qualche amico mi è rimasto, Alessandro Haber per esempio. La verità è che gli affetti mi mancano, mi manca quel sistema di normalità che è la nostra quotidiana recita ma anche una parte così importante della vita » .
Quando parla dei figli e confessa di non essere stato un buon padre si incupisce per un attimo, la voce scende di un' ottava e una tristezza fuggente si accende su quel viso tutt' occhi e tutto naso: « Questa è una cosa che mi pesa, molto più di aver perduto il denaro o il successo, tanto a quelli non ho mai dato grande importanza. Solo che quando ci penso finisco per arrivare sempre alla stessa conclusione, che ognuno è quello che è, è uguale per tutti e si chiama vivere » .
E allora? Se il discrimine non sono i soldi dissipati né la fama smarrita, se la porta dell' inferno non si apre nello iato che sta tra un bell' appartamento sulla via Cassia e questa casa-famiglia senza patria, cos' è che fa di Flavio Bucci un uomo in disgrazia? «Il non poter partecipare, l' impossibilità di stare dentro la società, nel bene e nel male, la relazione e lo scontro, il campo dove provare a esercitare l' onestà intellettuale di cui sei capace, che poi è la sola cosa che conta: non sei umano fino in fondo se non sei intellettualmente onesto». Mentre lo dice una signora si alza dal tavolino a fianco, gli si avvicina e chiede un autografo: « Sono una sua grande ammiratrice, sa?».
Abbraccio, sorrisi e un tuffo nell' acqua gelida del passato, dove uno dei suoi amati russi, Ivan Goncarov, farebbe sospirare al suo Oblomov che il successo ( come la vita) ti raggiunge ovunque. Lui preferisce l' understatement obbligato del perdente, quello che ti fa dire che «siamo in ogni caso tutti vinti, nessuno escluso, e il mondo va avanti lo stesso senza ciascuno di noi. Sempre meglio esserci, intendiamoci. Io non mi sento affatto portato per la morte. Al contrario mi piacerebbe molto lavorare con un trentenne, incontrarmi e scontrarmi con qualcuno che sia profondamente diverso dalla mia generazione».
I due giovani uomini che lo assistono nella casa-famiglia fanno capolino a segnalare che è quasi l' ora di pranzo e il compagno Bucci, che ai tempi si iscrisse convinto al Pci di Enrico Berlinguer, saluta a pugno chiuso appoggiandosi al bastone che gli è necessario per camminare. Sul tavolino lascia il pacchetto svuotato dalle sigarette che abbiamo già visto sulla scrivania di Alda Merini, i bicchieri ripuliti dal robusto aperitivo mattiniero che abbiamo già letto in Bukowski, i simboli trasognati che abbiamo già ammirato nei dipinti di Ligabue. L' attor vecchio è ancora uno e centomila, come ai tempi in cui era il lettore ufficiale delle poesie di Andreotti davanti al Papa o quando aveva per dirimpettaia Stefania Sandrelli, «la donna più bella del Novecento, non si discute».
Resta da capire, per quanto possibile, chi è oggi quest' uomo che si avvia verso il suo pasto solitario. « Cercasi Susan disperatamente, ecco chi sono io. Cercasi disperatamente la vita, come ho sempre fatto » . E qui bisogna stare attenti, perché la vita di cui parla Flavio Bucci non è la sua di un tempo contro quella di oggi, l' altare che rimpiangi quando stai nella polvere, «ma la vita di sempre e la vita di tutti». Quella che ti raggiunge ovunque e che tu non raggiungi mai, per esempio. E questa sì che è la vera disgrazia.