Giusi Ferré per “Io Donna - Corriere della Sera”
Sono stati uno degli amori di Bill Cunningham, forse il più grande, assieme a quello per la fotografia: certo il primo, visto che ha raccontato di non riuscire a concentrarsi in chiesa, dove assisteva alla messa quando era bambino, perché troppo preso dai cappellini delle signore. Prima di rubare al mondo frammenti di presente e raccontarlo come la passerella di uno show sul New York Times nelle sue celebri rubriche Evening Hours e On the Street.
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Prima di scrivere di moda per Women's Wear Daily e Chicago Tribune e setacciare le strade delle metropoli cercando di fotografare i vestiti e le donne più eleganti che li indossavano. Prima che Bill Cunningham fosse il leggendario Bill Cunningham davanti al cui obiettivo tutti sognavano di trovar-si, faceva il cappellaio per le primedonne dell'Upper East Side. Artista dell'acconciatura, maneggiava nastri, fiori, velette, piume, con un gusto soave.
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Paolo Castaldi, che alla fine degli anni Novanta riuscì a intervistarlo di persona - forse perché figlio di un fotografo eccentrico e importante, Alfa Castaldi - ricorda di aver visto ancora pendere dal soffitto del piccolo appartamento dove abitava file di lunghissime e splendide piume colorate.
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Traccia visibile di un'epoca, quasi quarant'anni fa, che è il punto di partenza del suo imprevedibile libro di memorie, Fashion Climbing, scovato nel suo archivio dopo la morte (nel giugno 2016) e che la famiglia ha ceduto in un'asta alla Penguin Press. Uscito a settembre 2018 in occasione della New York Fashion Week, non è un libro sulle celebrità, sui sorrisi facili, sul successo, ma sull'invenzione di una vita che racconta gli aspetti più profondi dell'emozione e della personalità.
A introdurci in un ambiente che, con toni meno vivaci, potrebbe presentarsi come una tragedia è un ricordo d'infanzia. Estate del 1933, Bill ha quattro anni e tenta incantato di infilarsi l'abito di una delle sue sorelle, di fragrante organza rosa. Ora, non solo l'epoca non era favorevole a questi esperimenti, ma siamo a Boston, in una famiglia cattolica irlandese il cui dilemma era: che cosa diranno i vicini?
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È la Boston da cui proviene l'unico presidente americano di fede cattolica, John Fitzgerald Kennedy, e quella immensa famiglia della quale solo in seguito si saprà con quale durezza è stato educato. D'abitudine anche nella famiglia Cunningham, che per correggere certe passioni ambigue del figlio, sorpreso davanti all'armadio, «lo picchia con la cintura e lo minaccia in ogni osso del suo corpo disinibito se solo tenta ancora di indossare un vestito da ragazza».
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La doppia vita di impiegato e stilista
Per togliergli ogni fantasia artistica dalla testa, viene iscritto a una scuola commerciale, quindi spedito a lavorare da Bonwitt Teller, il più piccolo e sofisticato dei grandi magazzini Usa. Prima a Boston, poi, a 19 anni, nel negozio di New York, la cui clientela apparteneva a quella che si può solo definire high society, l'aristocrazia americana del denaro. Comincia lì a fare i suoi"lavoretti". In una stanza sul retro «crea cappellini da coordinare ai vestiti che le signore avevano ordinato».
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Idea semplice e geniale, - del tutto sconosciuta però alla direzione e che finì per l'entusiasmo di una cliente, lady Astor. Arrivò in negozio con uno di quei cappelli e ai complimenti del direttore rispose con totale onestà che si trattava di una creazione di Bill.
Erbe e fiori sull'elmetto
L'artista venne licenziato, il rapporto con Brooke Astor durò per sempre. Tanto che secondo David Rockefeller fu l'unico rappresentante dei media invitato alla festa per il centesimo compleanno della lady. Intanto il giovane Bill, con quel sorriso smagliante e quella faccia chiara, dai colori vagamente sabbiosi, tipo ragazzo Kennedy, viene arruolato nell'esercito al tempo impegnato in Corea - anche se il fortunato Bill finisce di stanza a Parigi.
«Ero il protagonista delle manovre mimetiche», racconta e deve aver calzato con un certo piacere l'elmetto «coperto da un abbagliante giardino di fiori ed erbe». Se era costretto a marciare per ore, immaginava di non tenere in mano un fucile, ma un mazzo di piume di struzzo. Non il più combattivo dei soldati, ma il più fantasioso degli uomini.
Riprende a occuparsi dei suoi adorati cappellini quando nel 1953 rientra negli Stati Uniti e decide di firmarli soltanto William J., facendo sparire il cognome per non mettere in imbarazzo la famiglia. Ottiene un successo impensabile (…) al punto che, il New York Times elogia con entusiasmo la sua collezione del 1958 sostenendo che «alcuni dei suoi copricapi da cocktail erano tra i più straordinari che si fossero mai immaginati».
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Sono molte le personalità della moda e della stampa con le quali intreccia amicizie fondamentali, come Carmel Snow, direttrice di Harper's Bazaar che per la sua rivista volle come illustratori Dalì e Chagall, e Diana Vreeland, direttrice mito di American Vogue e consulente al Costume Institute di NewYork, dove organizzò mostre sensazionali.
Furono le prime a capire che Cunningham osservava le donne e i loro vestiti, e che questo sguardo straordinario poteva diventare uno strumento di lavoro. Quando l'America smise di portare il cappello e nel 1962 Cunningham chiuse il suo salone, cominciò a scrivere e scattare foto di quel che accadeva nei saloni dell'alta moda e in parchi, strade, party notturni. Quasi una ventata d'aria fresca, di giovani e musica.
Tra le scoperte dell'infinitamente curioso Bill, oltre alla magnificenza di Parigi, ai giorni eccitanti a Londra e in Spagna, a contatto con Cristobal Balenciaga, si fa strada anche l'alta moda romana, tutta palazzi rinascimentali, saloni da ballo con relativi balli, feste, attrici sciamate in quella che era diventata Hollywood sul Tevere, stilisti con titoli nobiliari.
Ma scende in campo anche Firenze, dove il conte Giovanni Battista Giorgini raduna nomi nuovi e coraggiosi del nascente prét-à-porter. Si percepiscono un gran fermento e quelle rivalità inevitabili che segnano ogni avvenimento italiano. Se ne accorge immediatamente questo fotogiornalista che non amava gli aspetti dorati di un universo che pure lo attirava, ma sapeva coglierli con un classismo quasi sprezzante. Dire che servono "generazioni di buona educazione" per occuparsi di alta moda eli-mina di colpo molte star di quei vorticosi anni Ses-santa come di oggi.
Indimenticabile è la descrizione del suo primo viaggio in Italia (nel 1963) e della partenza da Roma per Firenze con la «Super Glamorous Fashion Press» (super fa-scinosa stampa di moda). Il treno, nemmeno a dirlo, arranca attraverso una tempesta di neve e finisce per bloccarsi nella stazione di un paesino isolato tra le montagne.
Pellicce, stivali e occhiali da sole
La temperatura è scesa a zero, il ritardo supera ormai le sette ore e strane creature svolazzano lungo i vagoni indossando una pelliccia sopra l'altra, cappelli, stivali e ovviamente occhiali da sole. Una scena, che ricorda i film dei fratelli Marx, rende indimenticabili questi momenti: la corrispondente romana di Harper's Bazaar, avvolta in un cappotto di alligatore nero con l'interno foderato di mongolia e un turbante di chiffon alto almeno 30 centimetri, è affacciata al finestrino e sta passando a un inserviente il suo bauletto con i gioielli quando il convoglio all'improvviso si rimette in moto, tra le sue urla che si stanno trasformando in una crisi isterica.
Il nostro osservatore deduce così una grande verità: le signore della stampa di moda sono allenate ad apparire chic in pubblico, ma nelle crisi si comportano come se fossero in galera. Poi a Firenze tutto appare fastoso, meraviglioso, di quasi insostenibile bellezza. Ma nelle sale di Palazzo Pitti, buyer più o meno ricchi e giornaliste più o meno importanti misurano il loro potere dal posto conquistato alle sfilate. In prima fila gli americani. Poi inglesi e tedeschi, seguiti da francesi, belgi e giapponesi. Quei giapponesi desideratissimi, superati oggi soltanto dai cinesi che occupano settori interi.
Bill Cunningham li ha visti, come ha visto tutte le trasformazioni della moda e della società in questi decenni: ogni immagine, archiviata nei suoi schedari e nelle scatole che conservava nel suo appartamentino alla Carnegie Hall. Così stipato che la porta d'ingresso si apriva solo per un terzo. Senza una sedia, pare, né un armadio. E in effetti, nessuno l'ha mai visto indossare qualcosa di diverso della giacca a tre tasche, da operaio francese, la borsa con le macchine fotografiche e le scarpe con la suola di gomma.
Non aveva nemmeno la cucina e il bagno privato, ma forse questa austerità quasi monacale gli rendeva meno pesante il lusso e lo sfarzo con il quale si incrociava. Non lo dice nella sua bizzarra raccolta di fatti e riflessioni, che si chiude con gli anni '60, ma possiamo immaginarlo, per la sua insofferenza alle regole e un gusto della libertà che lo spinse a evitare ogni legame. Perfino al New York Times rifiutò di essere assunto fino a quando un furgone lo investì mentre cercava di cogliere espressioni di stile nei passanti e finì in ospedale. Senza assicurazione. Aveva orrore di qualsiasi padrone e quando un giornale richiedeva una sua rubrica chiariva bene che la scelta di chi e che cosa fotografare era soltanto sua, senza imposizioni pubblicitarie.
Il suo segreto: sfuggire a tutti
«Non amo fotografare chi prende in prestito abiti, preferisco le donne che spendono i propri soldi e indossano i propri vestiti... Quando spendi i tuoi soldi, fai una scelta diversa». Più che le appassionate di red carpet, lo incuriosivano le persone che vedeva camminare per strada all'an-golo tra la Fifth Avenue e la 57th Street, dove il sindaco Bill de Blasio ha temporaneamente installato come segnale stradale "Bill Cunnigham Corner". Per capire questo suo interesse per l'umanità, basta pensare che quando gli fu dedicato un bel documentario, diretto da Richard Press, alla sera della prima non si fece vedere perché era impegnato a ritrarre gli ospiti che arrivavano.
A presentarmelo, all'uscita da una sfilata a Parigi, è stata Anna Piaggi, la più grande e rispettata giornalista italiana di moda, vera scopritrice di talenti e donna di straordinaria cultura. Cunningham la stava fotografando perché nessuna era originale e sapeva portare acconciature straordinarie come lei. Mi colpì il sorriso giovane, quasi infantile di quell'uomo che poteva avere sessant'anni, ma guardava come un bambino. E niente oggi mi sembra più vero di quel che scrive verso la fine di Fashion Climbing: «L'unico modo per durare è non permettere mai a nessuno di conoscerti».
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