Malcom Pagani per il “Fatto quotidiano”
I titoli: “Il mio compagno Luciano Martino era un campione del genere. Ne scriveva una decina su un foglio bianco, li selezionava e poi li portava ai distributori. Io mi arrabbiavo, discutevo, me la prendevo con lui e ricevevo puntualmente la stessa spiegazione ‘adesso non ti piacciono, ma vedrai, decreteranno il successo del film’. I titoli erano infami, ma in un certo senso Luciano aveva ragione. Noi, diciamolo, non avevamo lo stesso pubblico di Germi o di Rosi. Non potevamo peccare di intellettualismo, dovevamo differenziarci”.
Piovvero dunque sulle grazie di Edwige Fenech quasi 70 film in poco più di 10 anni. Soldatesse, insegnanti, poliziotte, dame del castello, zie, vedove inconsolabili, strani vizi, cosce lunghe, peccati di nome Ubalda, Giovanna o Antonia, improvvisi calori, docce, nudità e giochi di parole fino a quando all’attrice che aveva turbato l’immaginario di una generazione: “Visti con gli occhi di oggi erano opere da educande” passò la voglia di andare sul set da un giorno all’altro.
“Ho recitato fino alla saturazione. Non ero soddisfatta di quel che facevo, la routine mi stava ammazzando e nonostante con fatica fossi arrivata nel tempo a dividere lo spazio con Tognazzi, Sordi, Steno, Festa Campanile e Risi, mi ritrovavo sempre nel ruolo della bella ragazza. Non mi facevano invecchiare interpretando altro, cominciavo ad annoiarmi e qualcosa si era rotto. Mi sentivo disonesta, con me stessa e con il pubblico.
Aspettai l’arrivo di una proposta che mi entusiasmasse e poi, stanca di attendere, dopo un paio di stagioni di pausa volontaria, dissi definitivamente basta. Misi un punto. Mi ritirai e cominciai a dire no”. Dalle prime orchidee tenute tra le dita in Samoa, regina della giungla: “Un fumettone per ragazzi” è trascorso quasi mezzo secolo. Lo splendore è intatto, il disincanto assoluto, l’umorismo affilato, il sorriso lieve, la salute incerta: “Ho un raffreddore tremendo, sono rimbambita”.
Seduta su un divano di un noto albergo romano con vista sullo zoo, i ricordi di Fenech somigliano a liane pendenti sull’epoca selvaggia di un cinema italiano capace di portare in sala 300 film a stagione: “Sono stati anni divertenti. Si girava in poche settimane, si correva, si trottava anche per 16 ore al giorno, si salpava per un’avventura partendo da tre righe di soggetto. In allegra incoscienza. ‘Se frequenti la serie B -mi dicevano- non arriverai mai a giocare in serie A’. Dimenticavano che io avevo bisogno di lavorare, di guadagnare, di mettere insieme il pranzo con la cena”.
Ora che le esigenze hanno cambiato di segno, dopo la seconda vita da produttrice, Fenech può iniziare la terza. Con l’accento francese e le origini siculo-maltesi, in È arrivata la felicità di Riccardo Milani è una nonna molto meno lontana da quella fotografata nel ‘75 in un film di Marino Girolami. Fenech era la venezuelana Marijuana Persichetti sbarcata a Pisa per far pendere e poi cadere nella seduzione un Giusva Fioravanti poco più che adolescente: “Al principio, nonostante Milani sia un amico fraterno, avevo rifiutato.
‘Non voglio tornare a recitare, lo sai’. Lui ha insistito e io ho accettato di leggere il copione. Mi è piaciuto, mi sono data della cretina, ho richiamato la produttrice Verdiana Bixio, la figlia di Carlo, una ragazza che stimavo e conoscevo bene e sono tornata a farmi dirigere da un bravo regista”. La serie con Claudio Santamaria, Alessandro Roja e Claudia Pandolfi, lodata da Aldo Grasso, trasmessa da Rai Uno e scritta da Stefano Bises, Ivan Cotroneo e Monica Rametta ha battuto il Grande Fratello ed è partita bene.
Sembra contenta signora Fenech.
Molto. Per interpretare la nonna ormai ho l’età giusta.
Aveva detto no, poi ha detto sì. Come mai?
L’eleganza della scrittura. In È arrivata la felicità gli sceneggiatori hanno immaginato situazioni moderne, intelligenti e plausibili. Sono stata contenta di aver cambiato idea.
Le è capitato spesso?
È successo, certo, perché nella mia vita le cose non sono andate sempre lisce. Ho faticato, ho superato ostacoli e forse ho imparato ad apprezzare di più le mie conquiste.
Prima di recitare in È arrivata la felicità aveva prodotto molte serie televisive.
Sono stata tre anni senza produrre un metro di pellicola, non lavoravo più e anche lì, siccome ferma troppo a lungo non so stare e detesto chiedere, ho ribaltato il tavolo e sono andata per conto mio. Ho detto ‘va bene, tiriamo i remi in barca, da oggi mi occupo di altro’. E così è andata.
È vero che adesso vive in Portogallo?
Vivo in tanti posti, viaggio moltissimo. Mio figlio Edwin si era trasferito a vivere in Cina. Sono andata a trovarlo 6 volte in un anno.
Edwin Fenech, classe 1971, guru del settore vendite e prima guida del mercato Ferrari negli Stati Uniti, è stato cresciuto solo da lei. E il nome di suo padre non è stato mai rivelato.
Con il padre di Edwin stavo da parecchio tempo. Venne da me e fu offensivo: “Di chi è il figlio?”. “È mio - dissi- e me ne andai sbattendo la porta”. Credo di essere una persona gentile ed educata, ma se mi tratti male e mi insulti gratuitamente divento fumantina, reagisco e me ne vado. La storia fini così, eravamo partiti con il piede sbagliato, proseguire non avrebbe avuto senso.
All’epoca lei aveva 21 anni.
E un contratto già firmato per interpretare un giallo. L’avevo siglato due anni prima, ma il film per una ragione o per l’altra non si era mai fatto. Andai nell’ufficio del produttore, un uomo grasso con cui avevo un rapporto di fiducia e di amicizia e gli dissi che ero incinta: “Se vuoi trovare una data per il nostro giallo è il momento di farlo, per un periodo mi dovrò fermare”.
Fu comprensivo?
La prese male: “Ma come? Proprio adesso che stiamo per iniziare a girare?”. Feci notare che attendevo vanamente da due anni e poi com’era normale ci salutammo un po’ freddamente con la promessa di riaggiornarci.
Vi riaggiornaste?
Mi fece causa per inadempienza. Un giorno suonò alla porta un postino e mi mise in mano la lettera di un avvocato. C’erano formule astruse e parole complicate, ma quel che si capiva perfettamente era l’intenzione di trascinarmi in tribunale perché aspettando un bambino mettevo a repentaglio la possibilità di girare il film. Io un avvocato non sapevo neanche come fosse fatto. Mai avrei pensato mi potesse servire e così chiamai l’unico che conoscevo. Mi rapinò non appena aprii bocca e come se non bastasse, riuscì anche a farmi condannare. L’unica volta, credo, in cui una donna sia stata sanzionata da un tribunale italiano per aver fatto nascere il proprio figlio. La vita è così.
Com’è?
Una meraviglia intervallata da salite, rincorse e casini inattesi. Nello stesso periodo di quella causa assurda andai a fare un fotoromanzo a Monza in pieno inverno per tirare su un po’ di soldi. Faceva un freddo cane, c’era la neve e io ero vestita da sposa, eterea, con le scarpette leggere e i piedi congelati che mia madre nelle pause mi frizionava con l’alcool. Se nella mia carriera sia stata o meno brava non lo so, ma so che sono stata una professionista. Un soldato che davanti al compito non si tirava indietro. Lavoravo a testa bassa senza farmi condizionare dal contesto. Mi comportai nello stesso anche a Monza, ma al momento del saldo mi fecero la sorpresina.
Quale sorpresina?
“Non ti paghiamo” mi dissero. “Hai un’esclusiva con noi, ma in edicola c’è un altro fotoromanzo e la protagonista sei tu”. Girai e spergiurai che non avevo fatto nessun altro lavoro e allora il contabile estrasse il giornale dalla valigetta: “Questo cosa sarebbe? Guarda”.
Non ci volevo credere. Senza che ne sapessi niente qualcuno aveva preso i fotogrammi de I peccati di Madame Bovary e li aveva pubblicati sul giornale. Sei milioni di lire gli dovetti dare. Tutto il mio compenso. Lavorai gratis e anche in quell’occasione, l’unico a essere pagato fu il mio avvocato. Mentre c’era la gara ad abbandonarmi e tutti sembravano pretendere da me il denaro che non avevo, come un angelo, apparve Luciano Martino.
Inventore di generi, produttore di oltre 100 film, scopritore con il fratello Sergio di Nicole Kidman. Un romanzo concluso in Kenia. Martino morì lì nel 2013.
Luciano aveva lavorato anche con Bolognini e Pasolini. Era colto, signorile, spiritoso, straordinario. E sapeva fare molto bene il proprio mestiere. Quando mi chiamò per chiedermi un incontro, lo conoscevo già da molti anni. Ero in un brutto momento, mi ero rifugiata da mia madre a Nizza e lo accolsi con la speranza che la fortuna iniziasse finalmente a soffiare dalla mia parte.
In che direzione soffiò?
Andammo al cinema e poi a cena. Io avevo il pancione e tra il primo e il secondo il bambino iniziò a prendermi a calci. Mi picchiava proprio. Si vedeva la forma del piede spuntare dal vestito. Sbiancai. Luciano se ne accorse e mi chiese se poteva appoggiarci la mano. Edwin si calmò in un istante. Un bellissimo segno.
Lei e Luciano Martino restaste insieme per molto tempo.
Quando mi venne a trovare proponendomi di firmare un’esclusiva con la società che aveva insieme al fratello Sergio nessuno dei due immaginava che l’esclusiva sarebbe diventata anche sentimentale.
E nessuno dei due sapeva che certi film di genere sarebbero entrati nella storia del cinema italiano.
In quegli anni l’entusiasmo di Tarantino, la curiosità dei Cahiers du Cinema e le retrospettive festivaliere non erano all’orizzonte. I film avevano dei titoli orrendi, ma non potevo giudicare la qualità perché non li vedevo. Per protesta contro l’Ubalda tutta calda o la Giovannona Coscialunga, io al cinema non andavo proprio. E non mi scomodavo neanche per le proiezioni private.
Non li ha mai visti?
Solo in tv, molti anni dopo.
E cosa si disse dopo averli visti?
Che non erano affatto scandalosi. C’è più scandalo in È arrivata la felicita. Nella serie di Milani dico le parolacce.
Effettivamente ne dice poche.
Ma ne ho ascoltate tantissime. Al dialogo tra i due pittori in canottiera nello studio 5 di Cinecittà che Fellini ha messo in Intervista ho assistito davvero.
“Oh, a Cè”, “Che c’è?” “vattela a pija nder culo” . Quel dialogo?
Esatto. Proprio quello. A Cinecittà, con Fellini, ho passato i tre mesi più deliranti, sofferenti, contraddittori e meravigliosi dei miei tanti anni di cinema. Lui aveva visto Quel gran pezzo dell’Ubalda, stava preparando Amarcord e mi convocò per capire se potevo interpretare il ruolo di Gradisca.
Ruolo dalla tormentata assegnazione.
Fellini cercava una fanciulla con due grosse tette e un grosso sedere. Anche volendo- e mi avrebbe fatto felice- non avrei potuto essere io. Pesavo 56 chili e rispetto alla mia stazza ero prosperosa, ma non sarei mai diventata la ragazzona giunonica che sognava Federico. Nonostante le condizioni, Fellini ci provò. Io ero emozionatissima. Timida in fondo sono sempre stata.
Fellini la mise in imbarazzo?
Lui era un galantuomo. Il problema ero io. Mi sentivo a disagio. Camminavo per i viali di Cinecittà e sembravo Cappuccetto Rosso sottobraccio a un monumento. Sudavo a pioggia, io che non sudo mai e sì, avevo anche momenti di grande imbarazzo. Io e Federico mangiavamo mano nella mano mentre con l’unico arto libero e lo stomaco chiuso, provavo a mandare giù qualcosa: “Non hai preso niente- mi diceva- così mi dimagrisci troppo. Devi ingrassare. Non la vuoi fare la Gradisca?”.
Sul set Fellini aveva portato la sua cuoca. Si chiamava Ubalda. Scherzando la rimproverava: “Ubalda deve essere colpa tua se Ubaldina non mangia”. Così mi chiamava Fellini. Ubaldina. O anche Bambi perché diceva che avevo gli occhi di un cerbiatto malinconico. C’era poco da ridere in effetti. Sul set vedevo cose meravigliose: la costruzione del mare, quella del Rex, la preparazione del paese, i figuranti e gli artigiani, ma mi sentivo sempre fuori posto.
Alla fine l’occasione di Amarcord evaporò.
Il contratto era pronto, ma al momento di farmelo firmare Fellini ebbe un ripensamento: “Bambi tu mi devi perdonare, ma io ho bisogno di una Gradisca con le tettone e il sederone. Tu deperisci a vista d’occhio, come faccio a darti il ruolo?”. “Maestro, deve scegliere lei”. Quando l’ipotesi saltò per qualche strana ragione mi sentii sollevata. Mi restava il ricordo. Tre mesi senza una sola scorrettezza a stretto contatto con un signore e con un genio.
C’erano anche i cineasti porcelloni?
All’epoca si diceva che il cinema fosse solo uno specchietto per le allodole. I porcelloni c’erano, certo, ma erano soprattutto i piccolissimi produttori di serie Z che insidiavano le ragazze e dopo averle ospitate sul divano se ne liberavano mandandole al macello. Una cosa triste, vecchia come il mondo.
Alcuni insidiavano, altri millantavano, altri ancora conquistavano solo per poterlo raccontare.
L’attrice era un trofeo. Rita Hayworth diceva che gli uomini andavano a letto con Hayworth e si svegliavano con Rita.
Con Luca Cordero di Montezemolo e più in generale con i suoi ex fidanzati ha buoni rapporti?
Tranne che con un paio di persone, ottimi. Anche con Luca. Sono una pacifista. Quando stavamo insieme mi attaccavano periodicamente. Conducevo una Domenica in dai grandi ascolti, ma ogni settimana uscivano sul mio conto critiche feroci: “Non sa fare niente, è imposta e raccomandata da Montezemolo”. Una balla assoluta. Luca in tv non conosceva nessuno. Tanta gente ha parlato e sparlato di me senza conoscermi.
Si descriva lei allora.
Esco poco, amo i miei segreti, sono discreta, non pettegola e forse sono anche un po’ noiosa.
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