Cristina Taglietti per il “Corriere della Sera”
Inizia con un urlo di dolore, si chiude con un picnic su una tomba La vita intima (Einaudi Stile libero) di Niccolò Ammaniti, tornato al romanzo otto anni dopo Anna , la distopia pandemica diventata serie tv proprio mentre il Covid-19 rendeva reale quello scenario apocalittico. Tra l'apertura comico-grottesca e il languore malinconico del finale, nel nuovo libro lo scrittore esplora la verità di una donna che sembra vivere solo della sua immagine pubblica e insieme esibisce la patina insulsa e kitsch che incarta un presente eretto sull'immagine.
La regola che governa la scrittura di Ammaniti è limpida: più si stringe la gabbia intorno al protagonista più ossigeno arriva allo sviluppo narrativo, più lo scrittore si sente libero. Nei romanzi precedenti sono stati i luoghi angusti per cui Ammaniti ha una dichiarata propensione - prigioni nella terra ( Io non ho paura ), catacombe ( Che la festa cominci ), cantine ( Io e te ) - a stritolare il protagonista spingendolo all'azione, qui la costrizione non è fisica, piuttosto psicologica e sociale. (...)
Qui l'ostacolo è un video compromettente (revenge porn o semplice tentativo di condivisione?) che un vecchio flirt dei vent' anni le invia. La paura di essere giudicati, la vergogna, la frattura tra essere e apparire che la protagonista incarna e che il mondo virtuale impone a tutti, è il terreno su cui Ammaniti lavora senza impartire lezioni moralistiche, dissotterrando dalla tomba dei social e del consenso parole come intimità e autenticità.
Lo scrittore alterna momenti in cui si lascia guidare dal divertimento portando all'estremo situazioni e personaggi fino a farne esilaranti prototipi, a impennate emotive, commoventi, tradotte in rapidi tocchi descrittivi, spesso resi efficaci dalla metafora biologica, dallo sguardo lucido su tutto ciò che è natura, dal racconto del dolore umano attraverso il dolore animale.
«La vita esiste fino a quando c'è e chissà, forse non termina, ti abbandona e si trasferisce a un altro organismo in una staffetta senza fine. Muore un uomo e nasce una cavalletta, muore una cavalletta e nasce un cerbiatto e tutti, dai virus ai primati più evoluti, siamo meri astucci, fodere create dal Dna per una ontologica necessità di replicarsi». Ammaniti racconta questi anni a modo suo - la politica senza ideali e una certa borghesia romana da «grande bellezza», i social e la tv, i soldi e il potere - con il gusto del paradosso che lo caratterizza con uno sguardo acuto, a volte indulgente.
Sagge parrucchiere-santone indiane con negozi in periferia contro hair sculptor vestiti di caftani, giornaliste assetate di verità, imprenditori dell'hospitality di lusso, lobbisti che vogliono fare pressioni sul governo e magari anche un selfie con la first lady, exit counselor venuti dall'America per «rompere i percorsi mentali stereotipati» e permettere agli artisti di recuperare la perduta creatività: il presepe dello scrittore è popolato da personaggi che nella deformazione trovano la loro intrinseca verità.
«La malinconia è la felicità di essere tristi» fa dire Ammaniti, citando Victor Hugo, a uno dei personaggi meno empatici del libro, un rozzo e superficiale ministro del nord Europa. E in questo retrogusto dolce-amaro che rimane sul palato alla fine della lettura, nella felicità di essere tristi, risiede la forza di questo romanzo che dice molto del presente e delle nostre fragilità.
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