JOAO MERAVIGLIAO – MOLENDINI RICORDA JOAO GILBERTO, CHE DETTE VITA E POESIA ALLA BOSSA NOVA NEI PRIMI ANNI '60, CON "DESAFINADO", MORTO IERI A 88 ANNI: “PIÙ DI UN MITO: È LA PERFEZIONE CHE DIVENTA OSSESSIONE” – “ANNI FA LO STAVO ACCOMPAGNANDO A TEATRO. IL PUBBLICO ERA SPAZIENTITO, PERCHÉ NON USCIVA DALL'ALBERGO E LUI CON LA CHITARRA STRETTA FRA LE BRACCIA CONTINUAVA A DIRE….” – VIDEO

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Marco Molendini per Dagospia

 

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Joao Gilberto più di un mito: è la perfezione che diventa ossessione. Ecco il segreto della sua arte. Anni fa a Perugia lo stavo accompagnando in macchina al teatro Morlacchi. Il pubblico era spazientito, perché Joao non usciva dall'albergo e ormai si erano fatte le sue di notte. Eravamo in tre in auto, oltre all'autista, lui, la fidanzata Maria do Ceu e io.

 

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Con la sua chitarra stretta fra le braccia continuava a dire «non ce la faccio, non sono in grado di suonare. Non sono capace». E io a insistere: «ma Joao tu sei un maestro, il più stimato di tutti». Aveva bisogno di essere incoraggiato, doveva superare il più grande dei blocchi psicologici: quello di non essere all'altezza della perfezione che è stata sempre il suo obiettivo. Per questo spesso ha dato buca, ha cancellato concerti, si è dato malato.

 

MARCO MOLENDINI CON JOAO GILBERTO MARCO MOLENDINI CON JOAO GILBERTO

Qualche tempo dopo mi fece chiamare da suo nipote, Octavio, per chiedermi di non raccontare quell'episodio. Lo faccio ora che Joao non c'è più, se ne ' andato in silenzio a 88 anni, perché è la plateale descrizione di come ha vissuto il suo rapporto con la musica il più impenetrabile e influente degli artisti brasiliani, uomo inafferrabile che ha passato la vita a sottrarsi ai meccanismi e ai clamori del consumo (e il successo mondiale della bossa nova nei primi anni Sessanta fu travolgente) per dedicarsi a un rapporto quasi religioso con la musica («Joao è un monaco della musica» diceva Gilberto Gil).

 

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Finchè non l'hanno sfrattato (aveva, negli ultimi tempi, problemi economici e Cateano Veloso è corso in suo aiuto), ha vissuto a Rio rinchiuso in una sorta di torre praticamente blindata a Leblon: dalle finestre vedeva la città, la distesa infinita dell'oceano respingendo ogni assedio. Perfino quello della proprietaria di casa, la contessa Brandolini d'Adda, che protestava perché il suo inquilino non lasciava entrare nessuno, neppure gli operai quando c'erano da fare dei lavori di manutenzione. Joao aveva tempo solo per la sua musica raramente per gli amici (ma non posso dimenticare le notti in macchina con lui girando per Rio).

 

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Era così anche quando si è affacciato, negli anni Cinquanta, nella scena ricchissima della musica brasiliana di allora sbarcando da Juazeiro, cittadina ai margini dell'arido sertao: aveva solo 18 anni. Il padre pretendeva che ognuno dei suoi sette figli ottenesse un diploma scolastico, ma Joãozinho, il sesto, fin da piccolo era interessato solo ad una cosa: la musica. E ha continuato così per tutta la vita, in una sorta di missione, intrapresa e continuata con spirito quasi religioso. «Cantare è come pregare, l'importante è la sensibilità» ha spiegato una volta, una di quelle rare occasioni in cui ha rotto la cortina che avvolge il suo mondo musicale.

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C'è una perseveranza zen in quello che ha fatto, nel continuare a lavorare sulla sua preziosa collezione di gioielli lustrati, ripuliti, affinati sempre più, su cui ha insistito tutta la carriera. Classici come Desafinado, Samba de uma nota so, Chega de saudade, Corcovado, ma anche la sontuosa Estate di Bruno Martino, ascoltata negli anni Sessanta alla Bussola, studiata, coltivata privatamente per decenni, limata, arricchita armonicamente fino a quando ha deciso di inciderla in quell'album capolavoro che è Amoroso del '79 o come è accaduto con Malaga di Fred Bongusto.

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E di quel montaggio, smontaggio con la pazienza di un sarto siamo stati diretti testimoni. Della ricerca delle parole, del loro senso, della loro giusta intonazione in decine di telefonate e, perfino, nel camerino di Joao durante un Festival di Juan Les Pins, soffrendo le pene di inferno perché intanto sul palco stavano suonando Caetano Veloso e Joao Bosco e lui insisteva, cantando decine di volte il pezzo: “In quella casa dal patio antico/ quante dolcese ti ho sussurrato”. E chiedendo: “Va bene così?”. No, Joao, si dice dolcezze non dolcese.

 

 

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E lui che riprova, corregge, cesella, condendo il tutto con fantastici e minuziosi merletti di accordi ricamati dalla chitarra. Una Di Giorgio da cui non riusciva a separarsi, neppure per riparare il ponte non è più fisso che faceva saltare continuamente l'accordatura. «Non posso, potrebbe perdere il suo suono» mi spiegava preoccupato nella sua suite d'albergo, fatta di due stanze da letto: in una dormiva lui, nell'altra la Di Giorgio su un letto tutto suo.

 

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Joao lo sa, la sua musica è un incrocio inestricabile fra la voce e quelle sei corde. Quella voce naturale che emette suoni in funzione della musica, come uno strumento a fiato di grande qualità. Sembra quasi che non canti. Come sa chi fa il mestiere del cantante il vero virtuosismo sta nel controllo vocale sui toni minimi. Figuriamoci in quel suo sussurro precisissimo, antimelodrammatico, cool, senza demagogia espressiva, che sa accogliere i suggerimenti del jazz (il canto morbido senza enfasi di Billie Holiday e di Chet Baker) con le parole che vengono legate, allungate, plasmate, e le consonanti, specie quelle sibilanti, che diventano loro stesse elemento ritmico. Il ricamo è affidato alle dita, il cui movimento è scandito da un senso del ritmo, la celebre battuta della bossa nova, che continua a incuriosire per la sua origine: la fantastica idea di trasferire il motore ritmico delle scuole di samba dalle percussioni travolgenti (nelle sfilate di Carnevale arrivano a tre, quattromila tamburi che suonano insieme allo stesso tempo) su uno strumento armonico, capace non solo di battere il tempo, ma anche di vestire la musica.

 

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Così la chitarra diventa la spina dorsale, quasi un'orchestra con le note basse che replicano il battere del surdo, il tamburo basso delle scuole di samba, le corde medie che armonizzano il tamburin e le corde alte il cavaquinho.

 

MARCO MOLENDINI CON JOAO GILBERTO MARCO MOLENDINI CON JOAO GILBERTO

La bossa nova, però, ha un altro elemento che la caratterizza: la sensualità, ereditata dal samba. «Non c'è dubbio, il samba è stato ispirato dalle mulatte carioca» diceva Noel Rosa, grande maestro degli anni Trenta. Joao ha fatto la stessa cosa, lungo il rio San Francesco a Juazeiro, per due anni, ha guardato, studiato la camminata delle lavandaie che si muovevano con il cesto in testa e ne ha ripetuto la cadenza fino a realizzare quel balance, quell'equilibrio misterioso della musica che diventa andatura, come nella clamorosa Garota de Ipanema, ispirata a Tom Jobim e Vinicius de Moraes da un'adolescente e alla quale ha dato corpo Joao con la sua Di Giorgio. “O seu balançado è mais que um poema” canta la canzone. La traduzione non restituisce in pieno il senso del verso (“Il tuo dondolarti è più che un poema”), ma il termine “balançado” mette insieme il movimento sinuoso e sensuale con un'idea del ritmo, perché il balanço sta al samba e alla bossa nova come lo swing sta al jazz (e anche la parola swing viene tradotta imprecisamente in italiano come dondolio).

 

 

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Un verso e una parola che nascondono il segreto di un linguaggio musicale nato dall'incrocio formidabile fra tre talenti diversi: quello mastodontico del compositore, Jobim, l'intuizione letteraria del poeta, Vincius, la realizzazione del musicista e cantante Joao, la chiave giusta per dare espressione a tutto ciò. “Joao ma cosa stai suonando?”: reagì così, con stupore, Jobim la prima volta che sentì la nuova battuta con cui Gilberto tornò a Rio nel 1957, dopo due anni di ritiro spirituale e musicale. Jobim ne rimase travolto. Capì che quel baiano complicato aveva trovato la chiave per sfrondare il samba, per renderlo essenziale, moderno, con il tocco in più di un fondo di melanconia, una solitudine assoluta formidabile elemento di modernità, come un Antonioni della musica (i cui film dell'alienazione sono contemporanei alla bossa nova).

 

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Gli viene così in mente un brano che aveva nel cassetto da un po' di tempo, scritta subito dopo Orfeo negro e il titolo era “Chega de saudade”, Basta con la nostalgia, manifesto della volontà di spezzare la retorica dominante della musica popolare. Quando portò Joao alla casa discografica però la reazione fu brusca, di netto rifiuto. Il massimo che riuscì a ottenere fu che Joao partecipasse come chitarrista all'incisione del pezzo affidato a Elizethe Cardoso. Per riuscire a far registrare quel brano a Joao ci mise ancora qualche mese e la realizzazione non fu senza problemi con Gilberto che non avrebbe mai smesso di limarla. Un giorno irritato con Jobim che voleva arrivare a una conclusione gli disse: “Tom tu sei brasiliano, sei pigro”.

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Quando uscì Chega de saudade, la bossa nova prese il volo. E Joao Gilberto divenne il suo profeta. Un profeta inafferrabile, inimitabile (anche se quello stile ha influenzato profondamente sia il pop che il jazz) che distilla musica con parsimonia, una parsimonia che ha dovuto combattere oltre che con il suo carattere con l'ostilità delle case discografiche con i suoi dischi classici, i pezzi incisi per i 33 giri “Chega de saudade” (1959), “O amor, o soriso e a flor” (1960), “Joao Gilberto” (1961) a lungo banditi dal mercato discografico per una battaglia legale. Un vuoto stridente, anche se quelle stesse canzoni, capolavori assoluti, hanno continuato a vivere con la sua voce, visto che ha continuato a suonarle, studiarle, sempre le stesse, in un viaggio frenetico e irrinunciabile alla ricerca della perfezione assoluta chiuso nella sua torre carioca dove notte e giorno si confondono, in un eremitaggio (ha avuto modo di fare anche una figlia a 75 anni) raramente interrotto da dischi (il migliore è “Joao Gilberto in Tokyo” del 2004), da concerti e dai rapporti con gli altri.

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Sosteneva Joao che “non si può ferire il silenzio. E' cosa sacra”. Già il silenzio, come quella volta che, quando viveva a New York, telefonò al suo amico Gilberto Gil nel cuore della notte. Un breve saluto e poi nulla, solo il suono lieve, denso, quasi religioso del respiro. Gil non osò rompere l'incanto. Dopo qualche minuto Joao parlò: «Gil, grazie di avere ascoltato il mio silenzio».

 

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Gli aneddoti sul più nascosto, influente e determinante dei musicisti brasiliani si contano a decine. Mescolano bizzarria, ferrea logica, generosità: una volta stavo ripartendo da Rio per Roma mi fece ricapitare un enorme baule con dentro una cena baiana completa, roba che per mangiarla ci sarebbe voluto un mese. Sapeva che mi piaceva e aveva chiesto a una sua amica cuoca di prepararla per me. A quei tempi gli aereoporti non erano come oggi. Insomma, buona parte di quei piatti sono riuscito a portarli in Italia. Ne sento ancora il sapore, forte come la nostalgia per Joao.

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