Tommaso Labate per corriere.it
Giancarlo De Cataldo, il suo primo impatto con la Banda della Magliana?
«Claudio Sicilia, pentito, incontrato in carcere. La prima volta che l’ho visto mi disse “sapesse, dottore, che cos’hanno combinato questi qua...”».
La volta dopo?
«Non ci fu perché lo ammazzarono prima del processo».
Come ci era finito lei in quel processo?
«Nessun giudice voleva farlo. Il mio presidente fu chiamato in Corte d’Assise a celebrarlo e mi chiese di andare con lui. Fino ad allora avevo fatto il magistrato di sorveglianza. Da quel momento in poi, mi resi conto che la cosa più lieve di cui mi sarei occupato sarebbe stata un omicidio».
Romanzo Criminale come nasce?
«Da un racconto scritto per Lo Straniero, la rivista diretta da Goffredo Fofi, intitolato Dandi’s blues. Avevo già in mente quel personaggio, ispirato a Renatino De Pedis».
Firmò il pezzo con nome e cognome?
«Lo firmai “Anonimo Romano”. Rincorrevo il sogno di fare un grande libro. Fofi mi disse “molla tutto e concentrati su questa storia”».
E poi?
«Studiavo le carte delle inchieste e del processo. Leggevo e rileggevo ma non riuscivo a scrivere nulla. Come se avessi paura dell’impatto di quella storia con la scrittura. Poi, per fortuna, la paura venne superata e venne fuori la prima stesura».
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Nelle vite di Giancarlo De Cataldo, quella di magistrato e quella di scrittore, esiste un prima e un dopo Romanzo Criminale. Parte di questa esistenza, raccontata in parallelo con alcuni dei più clamorosi casi di nera della storia patria (da Wilma Montesi a via Poma passando per l’omicidio di Pier Paolo Pasolini), l’autore tarantino l’ha rivissuta in Per questi motivi - Autobiografia criminale di un Paese, appena uscito per Sem.
Lei scrisse la sentenza di condanna di Scattone e Ferraro per l’omicidio di Marta Russo. Di cui, però, nel suo ultimo libro non c’è traccia.
«Nell’arco della mia vita da magistrato, tutte le volte in cui ho avuto la sensazione che non ci fosse la prova della colpevolezza ho votato o comunque contribuito all’assoluzione degli imputati, anche se erano pessimi figuri. E, mi creda, se qualcuno mi portasse la prova che ho sbagliato a giudicare, anche a tanti anni di distanza, sarei pronto a riconoscere l’errore».
Da come parla, non sembra questo il caso.
«No. E guardi che già all’epoca del processo le condanne per l’omicidio di Marta Russo furono molto contestate. Come se l’accademia, e in quel caso l’istituto di Storia del diritto romano della Sapienza, fosse un luogo sacro in cui un magistrato non aveva il diritto di mettere il naso. Prima o poi tornerò su quel caso, credo. In passato ho evitato di farlo anche quando si trattava di dovermi difendere da una calunnia».
Cioè?
«Un professore di cui non ricordo il nome scrisse sulla rivista Liberal che avevamo condannato Scattone e Ferraro perché ce l’aveva chiesto il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, con l’obiettivo di salvare la faccia della Procura di Roma che non era stata in grado di trovare gli assassini di Massimo D’Antona. Mi immaginai la scena di Scalfaro che telefonava per dettarci la sentenza e noi che rispondevamo “signorsì, presidente, procediamo con la condanna”».
Querelò?
«All’inizio lo citai in giudizio. Poi venne ad abitare nel mio palazzo Massimo De Angelis, il direttore della rivista, che mi convinse del fatto che quel pezzo nascondeva una sorta di punto di vista intellettuale sul caso. Convinse non del tutto, come può immaginare. Però ritirai l’azione».
Simonetta Cesaroni e il giallo di via Poma.
«Il primo applauso ricevuto in vita mia alla lettura di una sentenza; quella di assoluzione in appello di Raniero Busco, il fidanzato della povera Simonetta all’epoca in cui era stata uccisa, indagato, rinviato a giudizio e condannato in primo grado a più di vent’anni dall’omicidio».
Il vero omicida si troverà mai?
«Mai non lo dico mai. Certo, a trentaquattro anni di distanza, col il Dna ormai esaurito, non esistono tante combinazioni possibili per arrivare alla soluzione di un caso».
Dorme tranquillo un magistrato in pensione?
«Glielo dicevo prima: se qualcuno mi portasse le prove che qualche volta ho agito male, lo riconoscerei senza difficoltà. Segno che, se mai ho sbagliato, l’ho fatto in buona fede».
Crede nell’efficacia dell’ergastolo?
GIANCARLO DE CATALDO- ROMANZO CRIMINALE
«Ho fatto per tanti anni il giudice di sorveglianza, credo nella rieducazione e nell’articolo 27 della Costituzione. Anche se ne ho comminati parecchi no, non ci credo, ho anche firmato per la sua abolizione. È una violenza legale, autorizzata. In certi casi irrinunciabile, certo, ma sempre violenza è. Mi dà da pensare come la nostra società occidentale, che ha tanto investito nella cultura giurisdizionale, non sia ancora riuscita a superare il carcere e l’ergastolo».
Che cosa facevano i suoi genitori?
«Erano due insegnanti. Mamma democristiana; papà socialista autonomista, come tutta la famiglia De Cataldo, di quelli convinti che c’erano Nenni, Saragat e Pertini ma che i democristiani fossero baciapile e i comunisti liberticidi. Entrambi odiavano l’Italsider, che poi sarebbe diventata l’Ilva, perché affezionati alla vecchia Taranto degli ufficialetti di marina e dei teatri sempre pieni».
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Il sogno di ragazzo era fare il magistrato?
«No, era scrivere. Infatti la prima idea era quella di andare al Dams, anche se tutti quelli che l’avevano fatto finivano per sconsigliarlo. La laurea in giurisprudenza fu quel pezzo di carta a partire dal quale uno poi poteva decidere davvero che cosa fare. A me sono toccate in sorte le due cose, magistrato e scrittore. E sono stato contento così».
Mai tentato dalla politica?
«Una volta, quando sindaco di Taranto era Ezio Stefàno e c’era una giunta di centrosinistra, mi chiesero di fare l’assessore alla Cultura, che tra l’altro era compatibile col lavoro di magistrato. Risposi di no, perché convinto che della città dovesse occuparsi chi ci aveva buttato il sangue, non io che me n’ero andato a fare il signorino a Roma centro. Mi sono salvato, perché fare progetti culturali che avessero finanziamenti a Taranto avrebbe voluto dire relazionarsi con l’Ilva e con il responsabile delle relazioni istituzionali Girolamo Archinà. Magari sarei finito sotto processo anche io, come tanti altri».
Chi c’è nel suo pantheon personale? Chi sono i personaggi che l’hanno ispirata?
«Leonard Cohen, di cui traducevo le poesie, e Balzac; i miei maestri di diritto, Luigi Saraceni e Francesco Amato, perché mi hanno insegnato che il magistrato è prima di tutto un uomo; mia moglie Tiziana, su tutti».
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