Aldo Cazzullo e Roberta Scorranese per corriere.it - Estratti
Paolo Repetti, a metà degli Anni 90, assieme a Severino Cesari, lei diede una svolta alla Einaudi, fondando Stile Libero, nata come collana ma poi diventata una vera officina letteraria.
«Non fu facile, soprattutto perché la casa editrice aveva una storia importante: Pavese, Bobbio, Calvino. Introdurre una collana che mescolava la letteratura a generi come il crime, il comico e la televisione fu un’operazione che incontrò molte resistenze. Ma io ero e resto convinto che quel passaggio fosse necessario».
Perché?
«C’era uno squilibrio tra la produzione che attingeva al catalogo e quella che lanciava nuove proposte. Se cominci a vivere di catalogo, il destino è segnato. Era il 1996 e, per esempio, noi portammo nel tempio einaudiano E l’alluce fu, testo di Roberto Benigni».
Un rischio.
«Alto, perché Benigni ha un “corpo comico” che poteva diventare un flop se trascritto. Ma nulla in confronto al rischio che ci accollammo lanciando i Cannibali».
Nove, Ammaniti, Pinketts. A leggerli oggi sembrano molto diversi tra di loro. Con quale «fil rouge» li uniste?
«Erano autori colti, quindi che avevano frequentato i classici ma, al tempo stesso, parlavano di televisione, di fumetto, di quotidianità. Nove, per esempio, intuì la forza narrativa dell’uomo che si rimbecillisce davanti alla tv. L’antologia fu un successo clamoroso ma, ahimè irripetibile, tanto è vero che credo sia stato l’ultimo grande movimento letterario italiano».
Perché «irripetibile»?
«Perché allora c’era una comunità letteraria compatta alla quale ti potevi rivolgere e che ti seguiva. Gruppi ampi di persone accomunate da interessi, gusti, inclinazioni. Ecco perché la critica aveva molto peso: un articolo di Alfredo Giuliani o di Alberto Moravia “parlavano” a un gruppo vasto di persone. E così anche un’antologia come Gioventù cannibale: i racconti divisero la comunità letteraria in due, i “vecchi” che la osteggiarono e i “giovani” che la appoggiarono. Ma una comunità letteraria c’era: oggi credo che il pubblico dei lettori sia destrutturato, fatto di tante particelle e diventa difficile non solo lanciare una corrente letteraria, ma anche fare critica».
La critica è scomparsa?
«Credo che la critica letteraria non si faccia quasi più, oppure che sia spesso un esercizio impressionistico mutuato dalla rete. “Mi piace” o “non mi piace”. In fondo, la letteratura oggi potrebbe dirsi un grande mainstream globale dove il mantra è “funziona” o “non funziona”. La stagione dei Cannibali, invece, stimolò la nascita di una nuova generazione di critici, come Emanuele Trevi e Filippo La Porta.
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Stasera sapremo il nome del vincitore del Premio Strega 2024.
«Per noi di Stile Libero correre in questi grandi premi è stato sempre difficile. Certo, non è nel nostro Dna, in fondo Stile Libero nasce come collana “di rottura”. Però oggi che siamo, per dire, grandi e grossi (questa settimana in classifica abbiamo 3 libri nei primi 4), incontriamo lo stesso delle difficoltà a partecipare. Per esempio io avrei tanto voluto che almeno Nicoletta Verna, con il suo bellissimo romanzo I giorni di vetro, entrasse nella gara del Campiello. Invece, nulla. Ma non ci arrendiamo».
Però avete pubblicato best seller come «Romanzo criminale» di Giancarlo De Cataldo.
«Quel libro doveva intitolarsi Storiacce. Perché Giancarlo, con maestria, era riuscito a estrapolare da migliaia di pagine di sentenze, cinque personaggi memorabili ma con storie criminose dietro. Poco prima di andare in stampa, parlando con una giornalista, dissi: “È un romanzo criminale”. Così mi venne l’illuminazione».
Il film ne fu la consacrazione: lì c’erano tutti i futuri famosi, da Germano a Accorsi a Santamaria.
«Una felice congiunzione, che si ripeterà, per esempio, anche con alcuni libri di Niccolò Ammaniti, per me uno dei pochi autori che non ha mai perso lettori pur frequentando territori letterari molto diversi».
Carofiglio lo avete strappato alla Rizzoli?
«Gianrico ha la capacità unica di inoculare etica nei suoi legal thriller, cosa che si lega alla sua visione politica».
E il successo di Maurizio de Giovanni?
«Ha avuto una intuizione geniale: mettere assieme il melodramma, il giallo e la città di Napoli».
Anche Viola Ardone è una creatura di Stile Libero.
«Il suo Il treno dei bambini si rivela un successo anche se ci si limita a leggere le prime trenta pagine. Perché a parlare è la potenza della storia».
Un aneddoto legato a uno dei suoi scrittori?
«Quando venne in Italia David Foster Wallace, negli Anni 90, notò che gli italiani erano incollati alla tv per seguire i mondiali di calcio. Allora osservò: “Noi in America non potremmo mai appassionarci a uno sport che finisce 1-0, siamo abituati ad altri punteggi”».
Chi è il più grande scrittore vivente?
«Faccio fatica a dirlo, perché mi vengono in mente solo nomi come Tabucchi o Tondelli. Vale come risposta?».
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paolo repetti fulvio abbate foto di bacco
Secondo lei oggi un romanzo come «Lolita» verrebbe pubblicato?
«Io lo pubblicherei subito. Ma sarebbe difficile, perché il politicamente corretto non coglie il ruolo degli scrittori che oggi sono importanti più che mai, perché sono le sentinelle dei territori che non possiamo esplorare».
Come definirebbe Michela Murgia?
«Un’autrice enorme, perché sapeva trattare certi temi importanti con rigore letterario. Purtroppo non c’è più, sono rimaste le sue seguaci».
Un autore «datato»?
«Forse il Pasolini narratore, perché il poeta e il saggista sono straordinari».
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