Rutger Hauer a Lucca - di Veronica Del Soldà
Malcom Pagani e Federico Pontiggia per "il Fatto quotidiano"
I piedi nudi, la camicia a scacchi, un computer. Chiama la reception per un cappuccino, gliene portano due. Altri intristiscono sul vassoio. Sul tavolo una bottiglia di Chianti, succo e birra a morire nei bicchieri, due pacchetti di Camel vuoti, il terzo in corsa per raggiungerli. Rutger Hauer ride, riflette, ricorda e ogni tanto, tra una smorfia e un'onomatopea, assecondando il lento flusso di agosto, si prende le sue pause. Nella stanza d'albergo con vista zoo in cui Dino Risi trascorse i suoi ultimi anni, il replicante di Blade Runner si è lasciato la vita difficile alle spalle.
A gennaio l'uomo che vide cose che gli umani non avrebbero potuto immaginare, compirà 70 anni. Lo guardi negli occhi, e gli credi; lo vedi frangersi tra mimica, caricature e memorie, e non dubiti. Sciolte le lacrime nella pioggia e fissati i tatuaggi sulle spalle, oggi Hauer sorride. Tornare a uno dei monologhi più famosi della storia del cinema: "Volete che ve lo reciti?", lo spinge al soliloquio: "Io ne ho viste di cose che voi umani non potreste immaginarvi / navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione... certo che non l'ho dimenticato.
Parole che sembrano la sintesi della mia vita, il riassunto dei miei momenti più importanti. I miei genitori, Arend e Teunke erano attori. Due intellettuali, due bohemiennes. Casa mia era un porto di mare, ci vivevano in 29, in un clima libertario, originale. Osservavo questo mondo e mi chiedevo come mai, per mio padre e per mia madre, tutto pareva interessante tranne me. Come avrei attirato la loro attenzione? Mi annoiavo e sognavo la fuga.
La realizzò?
Da adolescente, alla fine degli anni ‘50, abbandonai la famiglia per imbarcarmi su un mercantile. A scuola ero un disastro, cercavo qualcosa di più appassionante dell'epopea di Guglielmo III e la trovai in mare. Volevo andare verso la libertà, spiegare le vele, spaccarmi la schiena per 50 euro al mese.
I suoi si opposero?
Mi agevolarono. Io ero un cavallo selvaggio, un fuggiasco nato. E loro due persone distratte, non cattive. Non fecero nulla per fermarmi. Il mare era un'antica eredità. Gli antenati di mia madre, secoli prima, avevano navigato. Un giorno mamma mi disse: "Se vuoi partire, Rutger, ti aiuterò".
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Fatica?
Mi aveva avvertito: "Sulla nave sarai destinato a mansioni di grande responsabilità. Preparerai le colazioni, strapazzerai le uova, rifarai i letti e pitturerai le pareti arrugginite dalla salsedine. Non chiedevo di meglio. "Sarà meraviglioso" le dissi. Preparai una borsa e senza avere mezza idea di cosa avrei fatto nella vita, chiusi la porta senza rimpianti.
Vide il mondo?
Il Pakistan, il Golfo Persico, Saigon. Un anno da vagabondo, imparando nuovi linguaggi e introiettando il senso di una disciplina che sui banchi di scuola mi rifiutavo di accettare.
Ribelle?
Non so. Ero nato in un piccolo, ridicolo villaggio, in cui originalità e indipendenza erano viste con sospetto. Ero indolente, rifiutavo l'autorità costituita e rispondevo con una pernacchia a qualunque cosa mi proponessero. Il viaggio itinerante mi aiutò a considerare l'ipotesi che per arrivare da qualche parte mi sarei dovuto impegnare. Quando tornai in Olanda mi iscrissi a un corso di teatro. Di giorno lavoravo come elettricista, muratore e carpentiere per pagarmi l'affitto. Di notte recitavo. Guardate i calli sulle mani, non mento. Per capire che sarei potuto diventare un attore però, impiegai molto tempo.
La morale dalla fatica?
Non credo nelle morali, soprattutto nelle morali a posteriori. Quando qualcuno pretende di dettarne una universale, state sicuri che mente.
In cosa crede allora?
Nei percorsi individuali. Ognuno ha il suo. Non diversamente da quanto mi era capitato sui banchi di scuola, ai corsi di teatro sbadigliavo senza ritegno. Le voci baritonali degli insegnanti, la vita che scorreva fuori dalle aule. Il tedio. Teoria, teoria e ancora teoria. Guardavo i miei compagni e mi chiedevo se non ci stessero truffando. A forza di interrogarmi sulle prospettive future, venni svegliato dalla realtà. La cartolina del servizio militare, arrivata a metà dei ‘60, fu uno choc.
Soldato Hauer.
Nei ‘60 le istituzioni militari avevano la pericolosa tendenza a formare gente da mandare sul fronte. Ogni divisa doveva diventare un perfetto John Wayne e nonostante sollecitare il fisico non mi dispiacesse, Wayne non sarei mai diventato. Ero allucinato dall'idea che ogni due ore, come nelle parodie, ci si trovasse tutti in gruppo, davanti a un signore impettito che gridava ordini indistinti e la sera, nella stessa formazione per soli uomini, i discorsi vertessero su birra, culi, fighe e sport. Avvertii un'asfissia. Respirare e accarezzare il sogno di scappare si trasformarono rapidamente nello stesso sentimento. A quel punto, architettai un piano.
Quale?
Fingermi pazzo. Dare di matto. Costringerli ad allontanare dal-l'esercito olandese un elemento inaffidabile, una fonte di rischio per i suoi stessi compagni di camerata.
Ci riuscì?
Non fu semplice. Mi preparai con un amico attore. Studiavo le smorfie, le risposte, i tempi di reazione. La sera prima di iniziare lo show, il mio amico mi consigliò di dormire un'ora per presentarmi stravolto e dare una patina di verità alla follia.
Come andò?
Feci del mio meglio. Cominciai a confondere bandiere nazionali e tovaglie, a rispondere male, a fare strane facce e a ridere in coincidenza di un'intimazione. Costrinsi il comandante a mandarmi dallo psicologo. Lì iniziò una partita a scacchi lunga due settimane. Non erano persuasi che fossi veramente pazzo, fisicamente stavo benissimo e venni sottoposto a molti fottutissimi esami. Quando mi congedarono, per un istante, non mi fidai. Sapevo di giocarmi il presente. Temevo che mi leggessero nel pensiero e potessero scoprirmi. Così, al momento della notizia, mi finsi sorpreso e dispiaciuto: "Signor Hauer, lei è un cittadino libero". Cominciai a urlare, a batter i pugni sul tavolo, a implorarli di poter rimanere: "Non avete il diritto di farlo , bastardi! Amo il mio paese, non potete impedirmi di servirlo!". Un rischio calcolato. Di lì a 10 minuti ero fuori dalla caserma. Fu molto divertente. Come tutta la mia vita.
Una volta fuori?
Non avevo risolto del tutto il mio problema. Dentro l'istituzione, si trattasse della scuola di teatro o dell'esercito, mi trovavo a disagio. Non mi ricordo un solo volto tra i miei insegnanti, ma degli uomini che mi hanno offerto un lavoro o delle città incontrate per raggiungerlo, ho una perfetta memoria fotografica. Per mia figlia, 50 anni dopo, è la stessa cosa. Irregimentata, non riesce a stare. Non è colpa loro, il padre non le ha dato le basi.
Come passò dal teatro alla tv?
Per un'incredibile coincidenza. Durante gli stage incontrai alcuni attori che stavano per iniziare una serie tv, Floris. Mi invitarono sul set e molto prima di avere un ruolo, ne rimasi rapito. Pensai: "Ma questo è veramente bello! Voglio provare a essere un attore". Parlai con il manager, non ci piacemmo. Lo guardai negli occhi e capii che lui faceva il suo mestiere per sé stesso e per nessun altro. Nonostante il brusco approccio, venni assunto.
Floris, la sua prima serie Tv ebbe un buon esito?
Fu un enorme successo. Andava in onda di domenica e al momento della trasmissione, il Paese si bloccava. Per quanto per strada mi fermassero, il fenomeno rimaneva relegato ai confini nazionali. E io volevo evadere, avere qualcosa di più grande. Quello che avevo mi sembrava troppo piccolo.
Non si accontentò.
Come a volte accade, ebbi un colpo di culo. Nel '73 Paul Verhoeven mi offrì il ruolo di protagonista in Fiore di Carne, tratto da un libro molto venduto che trattava temi universali. La liberazione del sesso. Il dolore. L'amore che sfiorisce. La malattia.
Anche il film andò bene.
Un trionfo. Tre milioni di spettatori nella sola Olanda. La nomination all'Oscar come miglior film straniero. In un minuto, sembrava che il mondo fosse esploso sul mio volto. Non volevo perdere quell'occasione e al tempo spesso non riuscivo a rendermi conto che quell'occasione fosse toccata proprio a me. Ero così grezzo, selvaggio, impreparato. Ero felice e turbato. Eravamo paragonati a Ultimo Tango, accostavano Paul a Bertolucci e Marlon Brando a me. Il tutto con un minuscolo film prodotto da un piccolo paese ed esportato ovunque. Non facevamo in tempo a chiedere dove fosse stato venduto che la lista dei paesi si allungava: Austria, Italia, Germania , Francia. Un delirio. Paul Verhoeven girò poi Robocop e Basic Istinct.
Per il primo dei due film, senza dar seguito all'idea, pensò a lei. Rimpianti?
Nessuno. Robocop non era fatto per me e non riesco a pensare a nessun attore al mondo che avrebbe potuto interpretare meglio di Douglas il suo ruolo in Basic Istinct. In più, particolare decisivo, Paul non me lo propose mai. (Ride).
Il seme dell'odio con Poitier e Micheal Caine non bastò per conquistare Hollywood, abbracciata solo grazie al violentissimo i falchi della notte del 1981.
Dell'81? Sicuri? È già passato tanto tempo? Maledizione. Mi divertii molto. Interpretavo un terrorista spietato, in una città che molti anni dopo dal terrorismo sarebbe stata duramente colpita.
Ne I falchi della notte lei era cattivissimo.
Non ho mai avuto paura di interpretare un cattivo. Recitavo con Sylvester Stallone, eravamo agli antipodi come ruoli, ma insieme ci trovammo benissimo. Nella scena finale, ci affrontiamo per ucciderci a vicenda.
"Ne rimarrà in piedi uno solo", giusto?
Il buono era lui, ma proprio nel finale gli ricordo una verità che è valida in moltissimi casi: "In fondo io e te facciamo lo stesso sporco mestiere, a cambiare è solo l'obbiettivo".
Poco dopo Ridley Scott la chiamò per Blade Runner. "Nessuno" - disse - "si sarebbe mai aspettato un esito simile".
Non fu così romantico. Non mi chiamò Ridley, ma il capo del casting. Era tutto maledettamente professionale e organizzato, al di là di qualunque immaginazione e la vittima di tanto zelo ovviamente eri tu.
L'impatto con Hollywood?
Hollywood è solo il nome di un infinetesimale segmento di una città con più di 20 milioni di abitanti. Un posto di merda, un circo per turisti, una specie di Disneyland. Sei contento se hai la parte in un film, guadagni, vai sui giornali e magari scopi tutte le sere. Altrimenti, ti ammazzi. Avete idea di quante persone siano morte cercando di avere fortuna a Los Angeles, di quante si siano smarrite a metà del percorso?
Molte?
Non le giudico perché essere insicuri, perdersi e non sapere ciò che si desidera a Hollywood è la cosa più semplice del mondo, ma sì, moltissime. Io sono stato fortunato perché Hollywood è un luogo che ammette soltanto due generi di finali. O il successo. O il crollo. Le vie di mezzo non sono previste.
Sente di appartenergli?
Siete pazzi? Io appartengo solo al posto in cui mi trovo e mi sento felice.
In Blade Runner lavorò con Harrison Ford. Si dice che i vostri rapporti siano stati complicati.
Non erano i nostri rapporti a essere complicati, complicato era lui. Ha avuto problemi con tutti. Problemi con me, con Ridley, con il film, con la sua reputazione. Non riusciva a ritrovarsi perché Harrison, un centro, non ce l'ha. Non ama la vita, non conosce niente, non sa nulla. Ce l'aveva con sé stesso tutti i giorni, emanava un'energia negativa. Sembrava andasse a marcia indietro. Il mio opposto.
Duro.
Era così negativo che immaginai fosse sotto l'effetto di qualche droga, ma a dire il vero, non ho mai capito di quale sostanza si trattasse. Lui era l'eroe, ma in quelle vesti si trovava malissimo.
Litigaste sul set?
Lavorammo insieme per 4 o 5 giorni al massimo, la maggior parte del tempo divisi da un muro. Harrison ogni tanto era dietro il muro della finzione e molto spesso dietro il suo muro personale.
Il film proponeva anche scene rischiose. Una volta dovevate girare in notturna, due stuntman si infortunarono e allora provò a lanciarsi lei. Incoscienza, follia, cos'altro?
L'attrezzista voleva che saltassi da un palazzo all'altro. Mi chiese: "Ce la fai?". "Così no" risposi. Poi rilanciai: "Ma se mi avvicini il palazzo di un metro, forse sì". Il film era girato negli studios e dopo due ore di rumore e casino, il palazzo era stato spostato davvero. Così mi lanciai, Niente di così eroico o pericoloso. Sapevo di avere un fisico adatto alla prova. Volevo tentare e dopo essermi allenato su un trampolino per un po', lo feci. Ero sicuro di salvarmi. In The Hitcher, anni dopo, mi andò molto peggio. Saltando da una macchina in corsa, mi spaccai un dente con il calcio del fucile.
Lei ha girato più di 100 film. Le dispiace essere ricordato soprattutto per un film?
Neanche un po'. Sono felice che sia diventato un evento collettivo. Essere ricordati per qualcosa di epocale, è meglio di essere dimenticati ed è bello che avvenga per un film che al centro della sua poetica ha il tema dell'identità.
Cosa la affascinava nel film?
Quello che mi è sempre piaciuto di Blade Runner, sono i suoi moltissimi livelli di lettura. L'idea alla base è semplice: "Io non so chi sei e voglio assolutamente scoprirlo". Ci dimentichiamo sempre ciò che siamo. Non ci diamo il tempo necessario a capirlo. In Blade Runner, Ridley provava a dare una risposta.
Ebbe un buon rapporto con lui?
Eccellente. Una volta stabilito un contatto, le cose andarono magnificamente. Gli domandavo lumi su Roy Batty: "Cosa vuoi che esca dal mio personaggio?". Lui mi suggeriva di lasciarmi andare: "Non pensarci". Altre volte gli facevo proposte di modifica del copione e lui diceva: "Ok, proviamo". Il massimo. Le uniche discussioni erano filosofiche: rispetto alla sceneggiatura non credevo che nello scontro conclusivo tra umani e androidi, si dovesse scimmiottare l'epica di Bruce Lee o di Superman. C'era qualcosa di più profondo, di più nascosto, di più sottile. Ridley era d'accordo e io in effetti, del finale del film, mi sento molto responsabile.
È vero che l'idea di far volare la colomba fu sua?
Contribuii. Cosa c'era di più bello di far tenere una colomba in mano e poi farla volare dalle mani di un replicante che tenta disperatamente di somigliare a un essere umano? Nel film e per il film, comunque, diedi tutto.
Dicono che lei litighi spesso. Con i registi e con i colleghi. Che assoldarla, nonostante il talento, corrisponda sempre a un rischio.
Il marinaio non può andare sempre contro le onde, a volte deve affrontarle lateralmente. Provando a essere furbo. Fino a un certo punto della mia vita ciò che dite è accaduto. Ho nuotato controvento combattendo con l'ego, poi, dal 1985, mi sono liberato. Da allora sono un altro uomo.
C'entra sua moglie, Ineke Ken Take?
La conobbi nel '67, la sposai nel-l'85. Lei c'entra sempre.
Lei è un monogamo e sta con la stessa donna da un trentennio. Un attitudine che contrasta con la mitologia delle sue imprese.
La fedeltà non è facile, ma se ci si sceglie, si fa un tratto di strada insieme e se si sta bene, quel tratto diventa un viaggio senza stazioni di arrivo.
Lei ha lavorato con molti registi italiani. Wertmüller, Tessari, Ferrara, Olmi. Il suo preferito?
Ermanno. Un maestro. Con Scott, uno dei due registi della mia vita in assoluto. Un uomo di intelligenza superiore capace di tirare fuori la mia essenza più delicata. Per La leggenda del santo bevitore con Ermanno ci incontrammo a Parigi, lui non parlava una parola di inglese. Mi conquisto in due minuti tendendomi un tranello. Mi propose di partecipare a un film d'azione. Lo guardai negli occhi e svelai il bluff.
Vi siete ritrovati 25 anni dopo ne Il villaggio di cartone.
È stato come se quegli anni non fossero passati. Speriamo di girare presto un altro film insieme. Ermanno, sbrigati, non abbiamo molto tempo. (Ride).
Si sente vecchio? Rutger?
Vi sembro vecchio? Senza una valigia e un copione da leggere non saprei stare. Il segreto del-l'attore in fondo è sempre lo stesso.
Quale?
Rendere credibile ciò che interpreti. Riempire una sala di gente che si emoziona. Conta solo quello. Il resto, credetemi, sono stronzate.