Estratto dell'articolo di Eusebio Ciccotti per “la Stampa”
Verdone, cosa significa per lei il Neorealismo cinematografico?
carlo verdone foto di bacco (5)
«Considero il Neorealismo un modo di raccontare la realtà per quello che è, abbandonando il modo calligrafico del cinema precedente interessato principalmente a storie di evasione. Si va dentro un paese distrutto. Si va a osservare la classe operaia in miseria e l'impellente bisogno di ricostruzione.
C'è un'atmosfera di disperazione in ogni vicenda e il Neorealismo ha il coraggio di cercare storie in fondo semplici, osservando quello che non si voleva osservare. Puntando l'attenzione sul reale malessere e le ipotetiche speranze, i protagonisti sono i disoccupati, i pensionati, i bambini, i contadini, i proletari. Possiamo definirlo un cinema assolutamente rivoluzionario.
Per quello che ho studiato nei cineclub e al Centro Sperimentale di Cinematografia, credo che il neorealismo sia stato anticipato nel 1943 da Ossessione di Luchino Visconti, un film estremamente coraggioso in quanto siamo in piena guerra, sotto il fascismo.
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Cosa le hanno insegnato film neorealisti quali Roma città aperta o Ladri di biciclette?
«Mi ha colpito, sin da studente, notare come in questi film la recitazione accademica dell'attore scomparisse a favore del personaggio che sembrava preso dalla strada: quell'uomo sullo schermo era la realtà. Si otteneva quindi una sorta di "verità assoluta" nei volti, nei gesti, nel dialetto e nelle imperfezioni.
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Sembravano quasi dei lavori documentaristici. Quindi cinema di finzione e documentario si intrecciavano continuamente. Questa è la grandezza coraggiosa e rivoluzionaria del cinema neorealista.E a poco a poco si formò una grande famiglia di film neorealisti o veristi».
CESARE ZAVATTINI - VITTORIO DE SICA
Prendiamo Ladri di biciclette. E la storia di una bicicletta rubata, avviene tutto in un giorno, di domenica. Un padre con un bambino alla ricerca della bicicletta, il tentativo finale del furto, il padre catturato dalla folla, il bambino che lo consola salvandolo dal linciaggio.
«Beh, fu un grande film. Un capolavoro. Un'opera che negli anni ha avuto il successo che si meritava. La grandezza di questo film, come di altri, era di non prendere generici di professione, ma gente dalla strada. A uno, se aveva la faccia giusta, gli facevi fare il contrabbandiere; a un altro gli facevi fare il ricettatore, a un altro ancora il prete; a un altro, un cameriere in una trattoria. Sul telone era tutto così vero.
Torniamo a Roma città aperta e alle difficoltà di produzione a poche settimane dalla fine della guerra.
«Una sera venne Rossellini a cena a casa nostra e si parlava del cinema dopo la Liberazione. Raccontava a mio padre Mario, a mia madre Rossana e a me (che ascoltavo con attenzione) le difficoltà realizzative di Roma città aperta.
Diceva: "Non avevo mezzi tecnici, non so nemmeno io come sia riuscito a fare Roma citta apertà. Mi mancavano gli stativi, le bandiere, persino le lampade. Siamo stati costretti a prendere un'automobile e a illuminare la scena con i fari accesi. Per fissare una bandiera su un proiettore utilizzavamo un fiammifero poiché nell'immediato dopoguerra neanche i chiodini si trovavano. Ricorrevamo a un manico di scopa per tenere una lampada".
Come vedi, nonostante queste difficoltà il Neorealismo produsse dei film di grande qualità. In queste opere, nonostante gli scarsi mezzi, abbiamo avuto una resa del fotografico eccezionale. Film che si sono affermati come dei capolavori mondiali del bianco e nero, con abilissimi direttori di fotografia come Ubaldo Arata, Carlo Montuori, Gianni Di Venanzo, Otello Martelli».
Era un cinema realizzato da un lavoro di squadra, un cinema che voleva risorgere.
«Poi cos'è successo? Dal 1947 in poi la politica si è resa conto che il Neorealismo era una brutta pubblicità per l'Italia. Il Paese che ne era ritratto era povero e popolato di straccioni.
Storie di miseria, di disoccupati, bambini che piangevano, madri disperate, e Giulio Andreotti disse che non era eticamente corretto sostenere film che davano un'immagine miserabile dell'Italia. Voleva che il cinema rappresentasse un'altra Italia, mentre il cinema neorealista continuava a essere sostenuto dagli intellettuali progressisti, soprattutto da quelli vicini al Partito comunista».
Sempre rimanendo sulla regia, come facevano questi registi, che non venivano dal "popolo", a raffigurarlo con precisione direi sociologica?
«Infatti erano borghesi, qualcuno nobile, come Luchino Visconti. Ti rispondo semplicemente con questa frase: erano registi e sceneggiatori che andavano a piedi, prendevano i mezzi pubblici, attraversavano la città quotidianamente, erano immersi in essa. La conoscevano. Artisti che si guardavano continuamente intorno. Memorizzavano volti, atteggiamenti, azioni. Nei mercati, nelle osterie, nelle piazzette d'estate eccetera. Il vero regista deve essere un pedinatore curioso».
Per chiudere, quali sono i film neorealisti che considera vicini al suo sentire di spettatore e uomo di cinema? Cosa le ha lasciato il neorealismo sul piano creativo?
«Credo che tutti noi vorremmo dire Ladri di biciclette. Ma se parli con un critico cinematografico "purista" direbbe La terra trema o Paisà o Roma città aperta. Confesso che da giovane furono tre i film che mi attrassero, e continuo a preferirli: Roma città aperta, Ladri di biciclette e Umberto D. Anche per i motivi estetici e di regia di cui abbiamo parlato. In quarta posizione metterei Paisà. Aggiungerei che del Neorealismo ho apprezzato l'attenzione e il rispetto per la realtà che ci circonda. Che ho cercato di declinare anche nel mio modo di vedere la commedia, tra sorriso e malinconia».
aldo fabrizi roma citta aperta ladri di biciclette. roma citta aperta carlo verdone foto di bacco (3) carlo verdone foto di bacco (4)