Alberto Riva per Il Venerdì – la Repubblica
Maglione grigio, sneakers ai piedi, più che understatement Antonio Franchini tende al sornione: «Guardi che quello editoriale è un lavoro collettivo» precisa quando fai notare che alcuni dei maggiori successi degli ultimi trent' anni, da Niccolò Ammaniti a Alessandro D'Avenia, da Paolo Giordano a Roberto Saviano, fino ai più recenti M di Antonio Scurati, L'acqua del lago non è mai dolce di Giulia Caminito e La stazione di Jacopo De Michelis sono passati dalle sue mani.
Napoletano, classe 1958, a lungo a capo della narrativa Mondadori e oggi direttore editoriale di Giunti-Bompiani, autore in proprio di vari libri, oggi Franchini torna in libreria con Leggere possedere vendere bruciare (Marsilio).
Una serie di racconti autobiografici intorno alla passione per i libri: c'è il ritratto di suo padre bibliofilo, l'incontro con uno straordinario venditore di libri partenopeo, l'avventura editoriale a Milano, la riflessione sul ruolo di mediazione dell'editor: «Sei pagato per interpretare il mercato e pubblicare quello che il mercato chiede, però anche quello che il mercato non chiede».
I grandi editori sono spesso accusati di pendere verso il bestseller e assecondare un appiattimento della lingua. Non è così?
«È vero, ci sono libri che soddisfano esigenze del mercato, o dettate da elementi culturali e del costume: è chiaro che negli anni Settanta il peso della saggistica politica era infinitamente più alto e che la letteratura Lgbt ha acquisito un peso che dieci anni fa non aveva. Ma è altrettanto evidente che i megaseller sono imprevedibili, sono libri che anticipano le tendenze. Non sempre il bestseller è il libro che mette d'accordo tutti, spesso è quello che sorprende, che spiazza».
È quello che è capitato a lei con Gomorra?
«Sì, ma capita continuamente. Il caso classico è Il nome della rosa, un giallo ma anche un libro di filosofia medievale. Si poteva prevedere? L'altro caso è Andrea Camilleri, il più grande bestsellerista italiano degli ultimi vent' anni. Si può dire che scrive in una lingua standard?».
Da che famiglia viene?
«Mio padre era commercialista e quando non lavorava passava il tempo a spolverare i suoi libri sugli scaffali. La misura del suo affetto era data dai libri che mi comprava. Io ho trascorso più tempo nelle librerie che all'università. Mia madre era donna del contado, provincia di Benevento.
Il loro matrimonio lo traducevo letterariamente nell'avere un padre lacapriano, frequentatore di circoli nautici, nuotatore, canottiere, e una madre alla Domenico Rea, che era originario di Nocera Inferiore. Io ho ereditato il misto delle due anime, quella del napoletano altoborghese e quella del popolano. Il mio prossimo libro sarà su mia madre».
Qui insiste molto sull'auto-definizione di "funzionario".
«È uno che dovrebbe seguire il mercato, ma fa le cose migliori nel momento in cui non lo segue passivamente. Anche Vittorio Sereni aveva la ferma consapevolezza di essere un funzionario. A meno che la casa editrice non sia tua, come nel caso di Roberto Calasso, l'unico editore intellettuale di rilevanza significativa. Calasso ha disegnato attraverso il catalogo Adelphi una mappa intellettuale complessa che rispecchia la sua visione della letteratura e dell'arte».
Lei scrive che nel '91, quando ha preso in mano la narrativa Mondadori, voleva attuare un ricambio. Sentiva la fine di un'epoca?
«All'inizio degli anni 80 c'erano stati Tondelli e De Carlo, che avevano aperto la via a protagonisti nuovi, e alla fine del decennio arrivarono Albinati, Veronesi, che poi sarebbero diventati protagonisti. Altri si sono persi per strada. A quel tempo esisteva ancora una società letteraria tradizionale, che si esprimeva attraverso riviste e personaggi alla Enzo Siciliano, o critici come Pampaloni e Bo. Quando io sono arrivato in Mondadori, nel 1986, i comitati editoriali erano formati da Fruttero & Lucentini, Peppo Pontiggia, Claudio Rugafiori, uomo di cultura colossale, sinologo, consulente di Adelphi. Negli anni 90 cose così non le ho viste più».
Che cosa intende quando parla di "cambiamento climatico" nel mondo editoriale?
«La durata dei libri, che adesso vivono di fiammate iniziali. Una volta morivi e diventavi famoso. Ora muori e sei dimenticato. Se Canale Mussolini di Pennacchi fosse uscito negli anni Cinquanta avrebbe avuto trent' anni di vita davanti. Le uniche eccezioni sono ancora una volta Il nome della rosa e Gomorra, che è uscito nel 2006 e siamo ancora qui a parlarne. Ma è un caso unico».
Con molti classici ha fatto in tempo a lavorare: Consolo, Malerba, La Capria, Rea, Pontiggia...
«Pontiggia è stato l'unico che ho considerato un maestro, sebbene fosse colui che nel modo più anticonformista e spregiudicato ha messo in discussione il ruolo del maestro. Quando arrivai alla narrativa italiana il tema era: Consolo riuscirà a terminare Nottetempo, casa per casa in tempo per partecipare al Premio Strega? Allora uscii con lui a cena per capire se ce l'avrebbe fatta. Mi disse che non se ne parlava neanche! Rea era un personaggio strepitoso, teatrale, viveva nel culto di Arnoldo Mondadori, che lo aveva scoperto».
Da un lato resiste la mitologia di Giulio Einaudi e delle sue riunioni del mercoledì, dall'altro quella di personaggi alla Arnoldo Mondadori, che leggeva pochissimo ma i libri li capiva al volo. Quello del funzionario è un ruolo che sta in mezzo?
«L'editore protagonista decide se un autore lo tiene o lo perde. L'editor no. Io non posso perdere un autore perché mi ha fatto girare le scatole. Sono ruoli molto diversi. È un lavoro di tante mediazioni, che è anche il suo lato affascinante».
Ho sentito un velo di pessimismo nel suo racconto. Sbaglio?
«Il pessimismo si deve alla consapevolezza d'essere parte di un ingranaggio. In realtà rileggendomi mi sono reso conto di non essere stato tanto un funzionario come credevo, ma anche io ho avuto un approccio intellettuale».
antonio pennacchi canale mussolini
Ci sono stati momenti d'emozione legati alla scoperta di un libro?
«Diverse volte e non dirò di autori viventi. Ma la sensazione di leggere il capolavoro l'ho avuta con Vite di uomini non illustri di Pontiggia e con Canale Mussolini. Pennacchi aveva scritto un romanzo epico e corale in un momento storico in cui sembrava, e vale tuttora, che epicità e coralità siano bandite».
pennacchi FRANCHINI antonio franchini umberto eco e il nome della rosa
GIULIA CAMINITO PREMIO CAMPIELLO giulia caminito cover giuseppe pontiggia cover