Estratto dell’articolo di Walter Veltroni per www.corriere.it
[…] Sveva Alviti, scelta da Alberto Barbera come madrina del Festival di Venezia, ha fatto molte cose, nei suoi pochi anni. È stata modella, attrice, ora regista. E, per prima cosa, tennista.
«Il tennis è stato la mia delizia e la mia croce. Ma non so se sia questo l'ordine giusto. Ero, e sono rimasta testardamente, una ragazza sensibile. Mi piaceva giocare, ma negli ultimi tempi non avevo più la gioia di farlo. In quello sport bisogna essere glaciali, io non lo ero. […]
Una volta feci 25 doppi falli, in una assurda partita che poi vinsi. Ma quel giorno posai la racchetta e decisi che non era cosa per me.
In quei giorni, davanti al mio liceo, arrivò una signora che distribuiva dei volantini di un'agenzia che promuoveva concorsi di bellezza. Non so perché decisi di partecipare e vinsi tutti i livelli. Per capire che tipo ero, io non sapevo neanche cosa fossero le scarpe col tacco. Ero tennista nell'animo. Però quel vento mi prese e mi ritrovai davanti all'offerta di un'agenzia, quella di Naomi Campbell per capirsi, che mi proponeva un contratto di un anno come modella, a New York».
«Avevo diciassette anni. La settimana dopo sono partita, ho lasciato tutto, compresa la scuola. Ora, non le sembri assurdo, forse sono andata via così giovane per lasciare il tennis, quella competizione continua che mi faceva piangere in campo e mi lasciava una permanente condizione di inadeguatezza. Avevo cominciato a otto anni, ero capace tecnicamente, ma non ero brava psicologicamente».
«Per sfuggire a quella fragilità ho varcato l'oceano. […] Mi hanno messo in un appartamento in cui c'era solo il letto per terra e poco altro. […] Sia chiaro: so benissimo che tante mie coetanee hanno avuto vite più difficili della mia. E sto solo raccontando, non certo lamentandomi. Perché poi tutto mi è servito per essere la Sveva che sono».
«[…] Io ho capito subito che quel mestiere dovevo farlo, ma non era ciò che volevo. Un po' come il tennis. Infatti anche a New York, come sulla terra rossa, ho pianto tanto, di solitudine. Ho resistito tre anni a fare la modella ma ci sono riuscita perché nel frattempo ho scoperto, come succede per le cose belle della vita, cioè per caso, la bellezza stratosferica della recitazione ».
«Una mia amica mi invitò ad andare a un corso tenuto da Susan Batson, una delle più importanti coach teatrali di Ny, e lì mi si è aperto un mondo. L'idea che qualcuno potesse stare su un palco, in mezzo a trenta o quaranta persone, e potesse liberamente esprimere ciò che la attraversava, ciò che stava vivendo, corrispondeva al desiderio che, fin da quella stanzetta di Monteverde, ha fatto compagnia alle mie giornate: scavarsi dentro, cercarsi nella profondità raggiungibile, vivere il tempo cercando il suo senso, la ragione delle cose. Quella sessione teatrale mi emozionò ma, come al solito, scappai.
[…] Ma poi sono tornata in quello studio e mi sono fatta avvolgere da quel modo di liberare sé stessi. Facevamo delle classi dalle sei del pomeriggio alle sei del mattino, proprio per straniarci dai tempi normali. […] Sono sempre stata timida, ma entrare nei personaggi mi dava una intima, immensa libertà. Mi spesavo con la moda e cercavo di dare gambe solide a quello che avevo scoperto essere il mio vero sogno: essere altri da me, vivere vite ennesime, dare volto e anima a creazioni della fantasia o a vite precedenti».
«Avevo un ragazzo che poi ho lasciato e sono tornata a Roma. […] Feci piccoli ruoli, quasi invisibili. Poi mi sono fermata, per un certo periodo. Finché la mia agente non mi ha detto che voleva farmi fare un provino per la parte di Dalida, nel film a lei dedicato».
«Mi ero preparata a fondo e ho passato tutte le fasi della selezione. Era un personaggio difficile. Dalida era una donna piena di dolori, con una vita accidentata, con ferite, a cominciare da quella della maternità mancata, che si sovrapponevano fino a essere insopportabili. Un grande talento in una grande malinconia» […]
«Ogni attore dice di essere entrato nel suo personaggio. Ma qui era una donna vera, carne ed ossa, una storia bombardata dalla sfortuna e dalla pena. Per me non è stato un vestito, che si mette e si toglie. È diventato pelle, anche pericolosamente pelle. Il suo disagio ho scoperto che mi assomigliava: la fragilità, l'ipersensibilità, la paura non G di perdere, nella vita, ma di perdere senza lottare».
«Ho fatto fatica ad uscire da quella pelle. Era il mio primo ruolo da protagonista, l'occasione più importante della mia vita. È andato bene, sono stata nominata in premi importanti come il César. Ma quando mi guardavo allo specchio non vedevo più Sveva, ma Dalida. Lei mi ha fatto incontrare, conoscere, dominare il mio dark side , mi ha insegnato persino a usarlo».
«Ho avuto bisogno di aiuto. Non ho conosciuto la depressione, ma una grande malinconia, quella sì. Le ferite vanno via, ma le cicatrici restano. Ho vissuto una bellissima storia d'amore con Anthony Delon, il figlio di Alain. Una storia bella, totalizzante. Finita con la stessa grazia con la quale è cominciata» […]
«Ci si può sentire cagnolini sotto la pioggia, come accadde a Sveva in America, si può avere paura del buio e della fantasia, temere la morte, quella che ho visto scendere lentamente nel corpo della mamma di Anthony. Ma la vita è comunque meravigliosa, piena di sorprese. Devi solo avere l'intelligenza per apprezzarla e l'energia positiva per attraversarla. Mi sono convinta, grazie alla vita, che la fragilità non è un difetto, non è una bestemmia. Anzi, solo la fragilità mi ha reso forte».
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