DAGOREPORT
Come scrisse lui, vorrei ricordare Paolo Isotta per quello che era, nel bene e nel male, lontano dalle dicerie dei colleghi critici che – a volte per invidia – sino a ieri lo irridevano, ma lontano anche dalla retorica dell’Isotta intellettuale di destra, anticonformista, libero e libertario e per questo detestato dall’establishment sinistorso:
come alcuni omosessuali vecchia maniera (ma lui, per se, voleva che si usasse il termine ricchione, non l’anglismo gay) era un San Sebastiano che voleva essere trafitto… e ne combinava di ogni per riuscire ad esserlo.
Ovviamente, l’affermarsi del politically correct lo agevolò molto nel trovare come essere fuori dal mainstream: lo era ipso-facto.
Nei primi anni di Napoli, dov’era nato il 18 ottobre 1950 figlio di un avvocato dell’alta borghesia e dove si era diplomato in pianoforte e laureato in Giurisprudenza, affonda “l’antefatto” che dà origine a ogni mitologia che si rispetti: nel 1971 Isotta inizia la carriera di insegnante al Conservatorio di Reggio Calabria, poi a Napoli.
Ma forse a causa di “bollenti spiriti” qualcosa con gli allievi non va per il verso giusto; meglio cambiare aria (nel gennaio 2019 il Conservatorio di Musica "San Pietro a Majella" lo nominerà professore emerito) ed eccolo all’ “Espresso” con Paolo Mieli e tutti i compagni: Mieli, allora, scrive articoli sul maoismo e dintorni lui brevi pezzi di critica musicale. Il destrissimo Piero Buscaroli, allora direttore del “Roma”, lo fa passare al “Giornale” di Montanelli (1974) dove i due si ritrovano insieme sulle pagine culturali.
Nel 1980 Franco Di Bella porta Isotta in un “Corriere della Sera” scosso dall’ondata terroristica, dall’omicidio di Walter Tobagi e, di lì a poco, dall’esplodere dello scandalo della Loggia P2, nel quale sono coinvolti i vertici del giornale. Succede un terremoto e i vertici devono dimettersi e vendere.
Al “Corriere” arriva Alberto Cavallari e il sindacato rosso è in mano a Raffaele Fiengo: da poco arrivato, Isotta può già mettersi il cuore in pace perché non lo fanno scrivere.
Il critico titolare è Duilio Courir, molto più in linea e abbadiano: Courir è un nome che Isotta non riuscirà mai a pronunciare in tutta la sua vita. Ma, a pensarci bene, non c’è niente di strano: il “Corriere” usava pure il Nobel Eugenio Montale come seconda firma sulla Scala!
Quando nel 1986 Riccardo Muti diventerà direttore della Scala - visto un po’ dall’élite abbadiana e di sinistra milanese come l’emigrante che è arrivato con la valigia di cartone (Muti si legherà al dito quell’accoglienza) - Isotta intravvede il suo eroe: forse c’è anche dell’altro, ma consideriamole malignità.
Da allora in poi il faziosissimo Isotta piega la sua brillante e verbosa penna (“giusta l’etimo”, “locupletati”…) a tessere lodi sperticate al solo maestro apulo-campano escludendo il resto del mondo.
Salvo i suoi amici del festival di Martina Franca. Per vent’anni odia le signore della sinistra milanese (delle quali ne palesava l’ignoranza) che parlano di Abbado, per vent’anni non esistono i Festival di Salisburgo, i teatri europei, i nuovi registi berlinesi: il mutocentrismo diventa la misura di tutte le cose musicali del “Corriere”.
luciano pavarotti in piscina ph adolfo franzo'
La pax musicale gli consente la ripresa della costruzione della leggenda personale. Lo si vuole in amore con la celebre “contessina”, che lui lascia con un fax. Non dimentica l’avversione per i comunisti, e in teatro finisce con il tirare uno schiaffetto (poi ingigantito, ma qualche mano la metteva davvero) al critico dell’Unità Rubens Tedeschi. Alla “prima” di una donna direttrice d’orchestra alla Scala si alza in piedi e dice: “So io dove te la ficcherei quella bacchetta!”.
Ma è anche molto simpatico: a un giovane cronista che deve fare un pezzo sulla scomparsa della Tebaldi si finge un’altra persona. Una delle sue rare trasferte avviene al Teatro di San Francisco insieme a un collega.
Isotta nutre un profondo disprezzo per la cultura (per lui subcultura) americana: leggendaria (e da ripetere a memoria ogni mattina) la sua affermazione che direi biblica: “Ogni volta che vedo scritto un termine in inglese che ha un corrispettivo in italiano ci vedo dietro la mano del cretino”. A San Francisco si porta dietro delle polverine tipo anti topi o anti tarme perché teme la scarsa pulizia degli alberghi. Per settimane non si saprà che fine ha fatto.
E’ in quegli anni che scrive i suoi pezzi più leggendari. Il primo è sui cessi della Scala. La tesi è che ci vorrebbero più bagni per le donne, ma questo perché loro ci passano troppo tempo: per dimostrare che le donne eccedono nello stare in bagno cita un manuale di urologia di inizio Novecento con dettagliati i tempi della minzione.
Scolpito nella leggenda resta l’articolo uscito il giorno della morte di Pavarotti. Mentre tutto il mondo piange il più grande tenore di tutti i tempi, Isotta scrive di Pavarotti: “Analfabeta musicale, solo dirò che l’opera lirica non è il canto del muezzin”.
Per Mieli, Isotta era forse come un “giullare” di corte o come l’erudito “stilita” che spara sentenze e, in fondo, lo faceva divertire; inoltre a Mieli della Scala non è fregato mai nulla.
Non così per il milanese De Bortoli che frequentava tutti i poteri forti della città, gli stessi dai quali ora ha preso le distanze nel suo ultimo libro scoprendo che hanno fatto il male del Paese.
De Bortoli, c’è da cederci, non sopportava in cuor suo Isotta e ogni volta che scriveva si apriva una estenuante lavoro di mediazione anche molto ridicolo: ore e ore di dibattito per sostituire la parola “membro” o cose di questo genere. I suoi pezzi avevano una arbasiniana capacità di giustapporre il colto estremo con il triviale.
Nel 2005 Muti è costretto a lasciare la Scala nonostante Isotta lo difenda sino a condizionare anche le cronache del giornale. Arriva il sovrintendente Stéphane Lissner (ora lo è di Napoli!!!).
Isotta è sempre più irrequieto in teatro e pretenzioso: dimora a Milano all’albergo Cavalieri (ma resta celebre l’attacco di un suo pezzo “Stavo in coppa alla terrazza - ndr di Capri, probabilmente - quando il direttore…”) , biglietti, auto che lo va a prendere per portarlo alla Scala e lo aspetta.
Nel 2013, al colmo di una serie di interventi pregiudiziali, pubblica un articolo fortemente critico verso Daniel Harding (da lui chiamato, in spregio al politically correct che vietava l’uso dell’articolo davanti al nome femminile “il Harding”), giovane direttore che Lissner aveva chiamato a salvare la Scala nel suo primo 7 dicembre attaccando, indirettamente Abbado. La sua verve travalicava la critica musicale verso il regolamento di conti.
Lissner ne ha abbastanza e lo definisce “persona non grata”, che poi significa semplicemente che non è più invitato dalla Scala in teatro. Ne esce fuori, con il solito conformismo giornalistico, un attacco alla libertà di stampa (dai, Paolo, dal di là ci sta ridendo su).
De Bortoli, che detesta lui e la vicenda, è pseudo doverosamente chiamato a difendere il diritto di critica. Per Isotta un trionfo: è il San Sebastiano della critica, “cacciato” da un sovrintendente abbadiano e difeso da un direttore che, da giovane, era della Fgci.
Cosa si consumi a Roma tra Isotta e Muti sfugge dall’umana comprensione. Ma il crac è fragoroso. I due rompono il sodalizio e, da allora, Isotta ha quasi solo parole irridenti nei confronti per il maestro apulo-campano, per il Festival di Ravenna diretto dalla moglie del maestro, Cristina Mazzavillani, per l’insistenza nel fare la regista della figlia Chiara Muti, per il colore della tinta dei capelli della moglie e via dicendo…
Come in un matrimonio di due che si sono molto amati, in Isotta c’è molto rancore; ma non sostituisce Muti con alcun nuovo direttore: resterà orfano.
Come un nobile dei tempi andati, a pensione avvenuta Isotta si ritira nella sua Napoli a scrivere memorie, non senza aver scritto un articolo dove racconta che il suo autista, con l’auto aziendale, andava a spacciare droga di notte senza che lui lo sapesse, affidandosi a San Gennaro per rimettere posto le cose.
E non senza attaccare la ex sovrintendente del Teatro San Carlo, Rossana Purchia, e sparando a zero sul n.1 del Ministero per gli Spettacoli dal vivo, Salvatore Nastasi. Escono così alcuni libri divertenti (ne ha scritti molti anche di seri), come “La virtù dell'elefante”, dove ha l’occasione per risparare a zero anche su altre mitologie del “Corriere”: prima tra tutte la celebrazione continua dello scrittore Claudio Magris.
È tra i pochi pensionati che il “Corriere” allontana immediatamente dalle sue fila: dire che non si prendesse con Luciano Fontana, già caporedattore all’Unità, è un eufemismo. Così finisce con lo scrivere per due quotidiani di “opposta” tendenza, ma uniti dall’essere al di fuori del mainstream progressista, lgbt, politically correct, neofemminista… tutti argomenti a lui in odio estremo: “Libero” e “Il Fatto quotidiano”.
Come faccia non si sa; soprattutto come faccia a pubblicare anche gli stessi pezzi su entrambi i giornali. Ora affidiamolo a San Gennaro, che se lo prenda lui, in grembo, questo insopportabile, fazioso, ma anche indimenticabile, personaggio.
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