Giuseppe Scaraffia per Io Donna - Corriere della Sera
Molti anni dopo Gabriele d’Annunzio si ricordava ancora di quel mattino lontano, alla vigilia della partenza della marchesa Luisa Casati Stampa per Saint-Moritz. «Facevo colazione da solo con lei. Credo che l’amassi già, senza dubbio la desideravo come sempre». Le aveva portato un singolare dono, una lunga spazzola da bagno inglese. «Era un modo per toccarla da lontano, con delle dita magiche». Quando il marito entrò e guardò incuriosito l’oggetto, lo scrittore arrossì.
Non era passato troppo tempo da quando, nel 1903, l’aveva notata, a una battura di caccia. C’era qualcosa di strano in «quell’amazzone sottile» di ventidue anni che spingeva ostinatamente il cavallo verso i salti più rischiosi. Una sera se l’era trovata vicina a tavola, avvolta in un abito grigio con perle nere. «Io ero seduto, gli occhi all’altezza della sua coscia… ero turbato fin nel profondo», ma aveva ideato una serie di stratagemmi per sfiorarla. D’Annunzio aveva una ventina d’anni più di quella ragazza alta e molto avvenente. Era calvo e tarchiato, ma era vestito con un’eleganza sofisticata e soprattutto aureolato dalla gloria delle sue innumerevoli conquiste. Per una volta corteggiò lentamente la sua preda.
Luisa Amman era nata a Milano nel 1881 da una ricca famiglia di industriali tessili. Sposare il marchese Camillo Casati Stampa di Soncino era stato per lei essenziale e irrilevante come per un attore salire sul palcoscenico su cui potrà recitare. La relazione presto universalmente nota con D’Annunzio le diede la spinta necessaria per iniziare a essere se stessa. «Voglio essere un’opera d’arte vivente» aveva dichiarato. E ci riuscì. Il suo corpo diventò una statua. Il suo viso un quadro. La sua conversazione una recitazione. Non ebbe abiti, ma costumi.
Luisa si concesse a D’Annunzio, ma non ne fu mai succube, piuttosto una collega nell’arte di affascinare la propria epoca. Fu la sola di cui lo scrittore parlava con un riguardo pieno di meraviglia: era «l’unica donna che mi ha sbalordito». Come sempre coniò per lei dei soprannomi; fu Monna Lisa, Domina, poi per sempre Coré, la dea degli inferi. Lui per lei rimase Ariel, lo spiritello insolente della Tempesta di Shakespeare. Diventare un’opera d’arte per lei non era stato facile, ma con tenacia la marchesa adattò al suo obiettivo il corpo ossuto, un viso asimmetrico, i folti capelli indomabili. Soltanto i larghi occhi verdi erano quasi all’altezza del compito, ma non abbastanza. Lei li aureolò di bistro e li dilatò con gocce di belladonna. Si imbiancò il viso, tinse i capelli di un rosso sulfureo e sottolineò la bellezza delle mani con giganteschi anelli.
Quell’irresistibile Medusa non faceva visite o passeggiate, ma apparizioni. Alternava periodi di castità a periodi di dissipazione. La sua relazione con D’Annunzio non si interruppe mai, ma si diradò negli anni e convisse con altri capricciosi incontri. Lo scrittore assisteva soddisfatto all’ascesa della «piccola amica dorata», pienamente riuscita nell’intento di abbagliare i contemporanei. Tutti, da Boldini a Van Dongen, da Bakst a Man Ray, da Cocteau e Beaton, si inchinavano a quell’opera d’arte capace di usare un boa come sciarpa o di stare nuda in giardino, replicando ai detrattori: «La verità è nuda!».
Nel 1910 D’Annunzio modellò su di lei un personaggio del romanzo Forse che sì forse che no. Isabella Inghirami era «avvolta in una di quelle lunghissime sciarpe di garze orientali… tinte di strani sogni» di Fortuny. «Le sue vesti vivevano con la sua carne come le ceneri vivono con la bragia». Ogni suo minimo gesto restava inimitabile, dal «togliersi la lunga calza di seta stando accosciata sul letto», al «togliersi dal cappello gli spilli sollevando le braccia in arco e lasciando scorrere la manica sino al poco oro crespo dell’ascella».
Con la «distruttrice della mediocrità» Gabriele condivideva il gusto della «mattonella di Persia», come chiamava la cocaina che illuminava i loro incontri. Il seduttore non si separava mai dalla scatolina d’oro «dove brilla la polvere» che esaltava la sua sensualità regalandogli un’effimera gioventù. Nel 1913 la marchesa e l’autore vissero un’estate intensa, siglata dal commento scritto da D’Annunzio dietro una fotografia dell’amata scattata da de Meyer: «La carne non è se non uno spirito promesso alla Morte». Il 9 agosto scrisse: «A Parigi la Sua vita era sparsa da per tutto. Bastava l’odore della pioggia per creare in me il Suo viso di bambina dispotica… Bastava un motivo di danza per gettare contro di me il Suo corpo pieghevole o per abbassare tutti i miei pensieri sotto il Suo piede arcuato».
Ma bastava un nulla per allontanare quei due grandi egocentrici. Allora la marchesa tempestava da Parigi l’amante in ritiro ad Arcachon. «Coré piange. Non si deve mai tormentare Coré. Le parole sono lontane. Venga se l’ama». E lui replicava: «Come Coré è lontana! Per due o tre giorni m’è parso di sentirla vicina; poi è ridiventata distante… Ora, per giungere fino al suo cuore, bisogna traversare molti cerchi di vanità umana».
Nel confronto infinito tra gli amanti, nel 1917, il Vate pensava di farle visita quando aveva saputo che la marchesa era in albergo da tre giorni, ma solo allora lo aveva invitato nella sua stanza. «La tentazione di vederla nella notte. Poi la rinunzia, malgrado l’assedio dei ricordi». Ad attrarlo non c’era solo il fascino indubitabile della donna. La Casati infatti si dedicava a pratiche di magia nera e a sedute spiritiche che da sempre incuriosivano D’Annunzio. Una notte animata da un temporale gli amanti si dedicarono, sulla via Appia, al rito stregonesco dell’involtura, in cui viene battezzata la figura di cera di un nemico, prima di trafiggerla.
Tuttavia quella cerimonia intima era un’eccezione. Le messe nere che la marchesa organizzava erano soprattutto spettacoli e i lacchè neri solo comparse nell’incessante spettacolo della sua vita.
Scortata dagli animali, dal tranquillo ghepardo al pitone, dal pappagallo nero al levriero verniciato di blu in pendant col cappello della padrona, Luisa Casati interpretò magistralmente la femme fatale, ma non rovinò nessuno. A parte quello mai concluso con il Vate, i suoi amori rimasero al margine della sua eccezionale esistenza.
«Ella possedeva un dono e una sapienza onnipotente sul cuore maschile: sapeva essere o parere inverosimile», essere accessibile o lontana, come quando resistette a lungo al bombardamento di inviti al Vittoriale. Si fece precedere da un dono insolito, una gigantesca tartaruga che dopo una morte per indigestione sarebbe stata trasformata in scultura e ancora oggi trionfa in bella mostra. «È arrivata la tartaruga superando nella velocità Coré che forse arriverà l’anno prossimo» replicò lui imbronciato. Nell’attesa si abbandonava al flusso della memoria, aiutato dalla muta presenza della statua di cera della marchesa dotata di un sontuoso guardaroba di Poiret. Nel 1924 finalmente lei cedette alle richieste dell’anziano amante e soggiornò per un mese al Vittoriale. «Coré torna verso di me, dopo tanto».
Gli ultimi vent’anni della vita della Casati si svolsero sotto il segno della rovina fisica e finanziaria. Morì povera nel 1957, dopo avere coscienziosamente sperperato il denaro che tanto disprezzava. Cecil Beaton colse, con un trabocchetto, le ultime patetiche immagini della primadonna ormai vecchia e segnata, sotto la spessa veletta e la pelliccia di leopardo tarlata. «O Coré» aveva scritto D’Annunzio «inafferrabile come un’ombra dell’Ade».
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