Francesca Pierantozzi per il Messaggero
La settimana scorsa Maurice Laroche ha scelto un classico di Alan Payet. Non ama il contemporaneo, Maurice: al Beverley, i film in cartellone vanno raramente oltre gli anni Ottanta. «È una questione di estetica» spiega questo signore gentile, con i capelli bianchi e gli occhiali sulla punta del naso, che giocava a calcio per strada per Coluche.
Al Beverley l’estetica ha sempre contato, e anche l’accoglienza e una specie di cultura: per esempio, al pubblico del giovedì e del sabato, le “serate coppia”, prima di cominciare la proiezione, Maurice ama raccontare brevemente la storia del suo cinema, una sala aperta nel Dopoguerra, quando la vita riprendeva e di sale a luci rosse a Parigi ne aprivano a decine. Poi le cose sono cambiate: i sexy shop, i bar happy hours, e internet, naturalmente.
«Rispetto a quello che i ragazzini vedono su Internet, i miei film sono per la prima comunione» scherza, anche se assicura che lui un film porno non l’ha mai visto. Almeno non per intero: «Non è il mio genere. E con mia moglie non siamo certo stati una coppia di libertini. Purtroppo non c’è più. Sono stati il Beverley e i clienti affezionati che mi hanno aiutato ad andare avanti».
I cinema X hanno cominciato a chiudere, uno dopo l’altro, a Pigalle e non solo, gli ultimi qualche anno fa: «Uno è diventato una pasticceria, un altro un supermercato bio». Non che sia per forza un male, diceMaurice, ma insomma il segno di una società e di una città sempre più «asettica». Il Beverley ha resistito fino ad oggi, ma è finita: chiude la sala con i divanetti rossi che si affaccia su una stradina del secondo arrondissement, dietro i Grand Boulevards, tenuta come un gioiellino da Maurice. Ancora qualche settimana: «Vado avanti fino alla fine dell’anno».
Aveva giurato di resistere fino a quando le bobine da 15 chili non gli sarebbero sembrate troppo pensati. L’ora è arrivata. Ha resistito per i suoi clienti. Con alcuni, ha detto al Nouvel Observateur, che ha dedicato alla vicenda un lungo articolo, «siamo invecchiati insieme». Con altri «siamo diventati amici», e ci sarebbe anche chi ha pianto, alla notizia della chiusura.
Maurice aveva 40 anni, una moglie e un figlio, nel 1983, quando, rispondendo a un annuncio su un giornale, si presentò al Beverley. Era un proiezionista. Fino ad allora aveva lavorato solo nelle sale «normali». Ma per lui «un western o un porno, erano sempre bobine». Dieci anni dopo, rileva la sala dal gestore che va in pensione. Ci sono stati i momenti di gloria: anche duecento ingressi al giorno.
Ricorda le serate di letture di poesie, e quella volta che degli spettatori improvvisarono il seguito di “Eyes Wide Shut” davanti allo schermo. «Ormai, se faccio 700 ingressi in una settimana è un successo». Nel bugigattolo che è la biglietteria, pende accanto alla sua faccia l’affiche di un film d’epoca: “Mémoire d’une petite culotte”, memorie di una mutandina.
A Maurice mancheranno «l’ambiente simpatico», i ragazzi in cerca di «naturalezza» (rispetto alle glabre epidermidi dell’era contemporanea, precisa), le coppie in cerca di divertimento, e soprattutto i suoi coetanei, in cerca di antichi turbamenti. «Per alcuni questa è una specie di casa di riposo, un parco giochi per signori abbandonati da Madame Prostate… Le immagini li consolano». Il Beverley gli mancherà.
Un ex affezionato e abituale spettatore, politico noto, un giorno gli attribuì «una legion d’onore simbolica». Per i cinefili e amanti della Parigi d’antan è un colpo. Lo scrittore Nicolas d’Estienne d’Orves aveva annoverato il Beverley tra le ultime «vere» sale della ville lumière, capitale del cinema, sala magari poco frequentabile, ma fieramente in resistenza contro una società (e una città) diventate troppo anonime. Maurice fa spallucce. Dice di essere contento, di aver imparato a guardare alla vita con una punta in più di «distanza e ironia». E in pensione che farà? «Magari andrò al cinema».
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