Giampiero Mughini per Dagospia
Caro Dago, sulle tue pagine ho letto con piacere che l’ultimo film di Gianni Amelio ha avuto un buon risultato di pubblico pagante. Appena posso correrò a vederlo, figuriamo se non la sento a tuttora atroce la vicenda della persecuzione legale del professor Aldo Braibanti in quanto omosessuale. Molti e molti anni fa sono stato in una sua casetta romana dalle parti del ghetto, una casetta che odorava di una sorta di garbata povertà.
Molti e molti e molti più anni fa, poco dopo aver fondato nei primi anni Sessanta “Giovane critica”, sono stato amico fraterno di Gianni Amelio, una di quelle amicizie di ventenni che vanno scoprendo ciò che conta nella vita. Non che allora lo sapessi che Gianni era a sua volta un omosessuale, né del resto quel tipo confessioni erano in auge allora. Ove Gianni me l’avesse fatta quella confessione, ovviamente non una virgola del nostro rapporto sarebbe mutato in una direzione o in un’altra. Stessa cosa per un altro dei miei amici fraterni dell’epoca, ho saputo trent’anni dopo che era a sua volta un omosessuale. Ve lo ripeto, erano particolarità di cui non si diceva nulla tra noi a quel tempo.
Se c’era una passione che ci divorava entrambi, me e Gianni, quello era il cinema. Lui vedeva tutti i film e sapeva tutto di ogni film. Fu lui a dirmi che non dovevo assolutamente perdermi il primo dei tre monumenti che Sergio Leone avrebbe eretto alla leggenda del western. Faceva un caldo della madonna in quel cinemino catanese dove i futuristi italiani si erano esibiti negli anni Venti.
Eravamo in pochi, accovacciati su delle sedute in legno eleganti ma non comodissime. Per tutta la durata del film non si sentivano neppure i respiri di noi spettatori. Nemmeno i respiri da quanto quel racconto - quei volti, quei duelli a chi estrae la pistola per primo, quella saga del coraggio - ti prendevano alla gola. Quel pomeriggio vidi per la prima volta Clint Eastwood, quei suoi occhi che guardavano senza tremare l’avversario o addirittura gli avversari. Pazzi come eravamo di cinema, voglio ben vedere che da allora lui non sia rimasto conficcato nella mia anima. Ho dato nome Clint al mio setter tricolore, un cagnetto pazzo che ha paura anche della sua ombra. Non quanto Gianni, ma anche per me il cinema stava ai primissimi posti, seppure a pari merito con quanto atteneva alla più generale storia della cultura e delle arti.
Laggiù a Catania non è che fosse facilissimo trovarli e vederli i bei film. A un certo punto leggemmo sul quotidiano locale che in un cinemino di periferia avrebbero proiettato “La corazzata Potemkin”, il fatidico capolavoro del cinema muto sovietico. Non ricordo più se in due o in tre ci precipitammo a vederlo al tempo della seconda proiezione. Lo avevano già tolto, perché durante la prima proiezione le reazioni degli spettatori erano state belluine.
Poco dopo divenni il presidente del Centro universitario cinematografico e per tre anni non ci negammo nulla in fatto di leccornie da cinema d’essai. Proiettammo “À bout de souffle”, anche quello un film che ti faceva stramazzare da quanto era nuovo e intenso e sempre mi è piaciuto di più ogni altra volta che l’ho visto. Dei provinciali che non avevano un soldo in tasca, il nostro fu un giro del mondo in ottanta film. Questo avevamo, i film e i giornali di carta che arrivano in edicola dopo le dieci del mattino e i libri editi a Roma o a Milano che arrivavano a Catania due settimane dopo. Questo facevamo, andare al cinema e pagare l’agente rateale della Einaudi. Ebbene confesso che non mi scambierei con un ventenne di oggi che in tutto e per tutto tiene in mano un telefonino.
Quei nostri vent’anni no, non sono stati male. Beninteso non che il me stesso di oggi abbia niente a che vedere con il ventenne di allora. Mi vengono i brividi a pensare alla volta che da presidente del Cuc mi piazzai nella saletta di proiezione, impugnai un microfono e commentai a modo mio un film muto sovietico le cui didascalie erano in russo e dov’era immane l’apologia della rivoluzione bolscevica del 1917, apologia che io accentuavo con quelli che oggi definirei degli sproloqui.
Amelio venne a Roma prima e divenne quel voi tutti sapete, uno dei migliori registi italiani degli ultimi trent’anni. Ogni volta che vedo un suo film è come se tifassi per lui, a suo favore. Per il resto non ci vediamo più da anni, e anche se non so bene perché.
Forse semplicemente perché tutto finisce ed è da beoti chiedersi il come e il perché. E’ finito il matrimonio tra Totti e Ilary, figuriamoci se non poteva finire l’amicizia tra due provinciali degli anni Sessanta ebbri di cinema.
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GIAMPIERO MUGHINI