Da “La Stampa”
Un fuori programma inaspettato ha acceso la Giornata del ricordo delle vittime del terrorismo con Marina Orlandi, la vedova di Marco Biagi, che alla Camera, alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ha lanciato la sua accusa alle istituzioni definendo «imperdonabile» la decisione di togliere la scorta al marito.
Un momento di tensione rotto da un applauso dell'aula. Solo la ricostruzione della verità, se non quella giudiziaria almeno quella storica, degli anni di piombo potrà chiudere quella stagione.
È il messaggio dei presidenti delle Camere, Maria Elisabetta Alberti Casellati e Roberto Fico, alla presenza anche di numerosi familiari dei caduti: Luigina Dongiovanni, nipote di Franco, carabiniere deceduto nella strage di Peteano, Maria Cristina Ammaturo, figlia del vicequestore Antonio, e Mario Calabresi, figlio del commissario Luigi, di cui riportiamo l'intervento integrale, e che ha fatto un appello a chi sa perché parli.
L’INTERVENTO DI MARIO CALABRESI
Sono passati cinquant' anni dal 17 maggio 1972, il giorno in cui mio padre, il commissario Luigi Calabresi, venne assassinato sotto casa a Milano.
Un tempo lunghissimo ci divide da quella mattina. Era l'alba degli Anni di Piombo, tre anni prima c'era stata la strage di Piazza Fontana, ma per la prima volta con quell'omicidio era stato scelto un bersaglio, era stata costruita una campagna per distruggerlo e screditarlo e alla fine lo si era eliminato. Sarebbe successo centinaia di volte negli anni successivi. Magistrati, poliziotti, carabinieri, sindacalisti, professori, operai, medici, guardie penitenziarie, giornalisti, studenti e uomini politici sarebbero stati messi nel mirino, trasformati in simboli e disumanizzati e poi colpiti a morte, gambizzati, resi invalidi.
Siamo qui per ricordare. Questo è il senso per cui è nata questa giornata, momento prezioso per tenere viva la memoria di persone che persero la vita in un tempo feroce.
La domanda che mi faccio è a cosa siano serviti questi cinquant' anni, se siano passati invano, se siano solamente serviti a scolorire i ricordi, a dimenticare, a rimuovere. Se il gesto violento abbia vinto per sempre o se invece il tempo, alla fine, abbia restituito qualcosa e reso giustizia.
Per molto tempo la solitudine, il silenzio e un diffuso disinteresse, forse figlio dell'imbarazzo, forse del fastidio, hanno circondato le vittime del terrorismo e i loro familiari. Difficile, quasi impossibile riuscire a far sentire la propria voce, essere ascoltati. Tutti coloro che sono qui e che hanno perso una persona amata negli Anni di Piombo sanno di cosa parlo, di quei lunghi anni in cui ci sentivamo dimenticati e quasi di peso.
Anni in cui il dibattito pubblico non contemplava di potersi dedicare alle vittime e alla loro memoria, in cui le librerie erano piene soltanto di volumi scritti da ex terroristi o ideologi della rivoluzione, in cui negli anniversari, soprattutto in questo che cade nella data del ritrovamento del corpo di Aldo Moro, in televisione e sui giornali a spiegarci cosa era successo erano gli assassini.
Sapete tutti quanto l'amarezza sia stata una compagna di vita e di cammino.
Poi però è accaduto qualcosa e sono cominciati ad arrivare segni di attenzione, gesti che hanno fatto breccia nel disinteresse e che sono arrivati sempre dallo stesso luogo: il Quirinale. Sono stati i presidenti della Repubblica, è importante ricordarlo, a svegliare la coscienza del Paese, ad aiutare l'opinione pubblica a ricordare.
Ha cominciato Carlo Azeglio Ciampi, con un'opera di attenzione verso gli uomini dello Stato uccisi perché difendevano le Istituzioni e la democrazia. Un cammino intrapreso con decisione e grande attenzione da Giorgio Napolitano, capace di gesti forti e di spingere l'approvazione - avvenuta quasi all'unanimità - di questo Giorno della Memoria dedicato alle vittime del terrorismo e delle stragi.
Un cammino che ha trovato nel presidente Mattarella una persona capace di comprendere fino in fondo le sensibilità di chi ha perso una persona amata, un presidente che non possiamo non sentire, anche per storia personale, come uno di noi.
L'esempio che è arrivato dall'alto ha cambiato la direzione del dibattito pubblico, non si sono quasi più visti ex terroristi pontificare in televisione, le voci delle vittime hanno trovato uno spazio nuovo, e l'esempio ha contaminato la società. Molti comuni hanno dato vita ad iniziative, ad intitolazioni di giardini, vie e piazze e tantissime scuole hanno fatto e continuano a fare progetti di ricordo dei caduti.
Questi semi hanno fatto fiorire una larga consapevolezza che la violenza politica non porti mai risultati fecondi e hanno solidificato la coscienza di chi stesse dalla parte della ragione. Di quanto quegli omicidi fossero ingiustificabili.
In questi giorni e in queste ore il nostro pensiero non può non andare all'Ucraina, a chi è vittima di violenza e ciò che abbiamo imparato dovrebbe indicarci con chiarezza una lezione fondamentale: non esistono giustificazioni per gli aggressori. E allora questi cinquant' anni non sono passati invano, il nostro Paese, almeno da quel punto di vista, è migliore e ha imparato qualcosa.
Così oggi possiamo ricordare Luigi Calabresi per quello che era, pulito da calunnie e campagne diffamatorie. Era un giovane funzionario di polizia, venne ucciso a soli 34 anni, (io oggi ne ho ben 18 più di lui) che amava profondamente il suo lavoro. Lo interpretava come una missione, pensava che il dialogo fosse l'arma migliore, tanto che girava senza pistola.
L'arma la teneva a casa, smontata, nel cassetto dei maglioni a collo alto.
Pensava che si dovessero usare tutta la pazienza e il tempo possibili per convincere i ragazzi a lasciare la strada della violenza, pensava che ci fossero i cattivi maestri nelle università e fuori dalle fabbriche, ma era anche convinto che all'interno dello Stato per cui lavorava ci fosse chi soffiava sui conflitti e tramava per favorire svolte autoritarie.
Restò fino alla fine fedele ai suoi principi e ai suoi valori e scelse, consapevolmente, di non scappare anche quando il clima era diventato pesantissimo e l'aria, intorno a lui, irrespirabile. Sono passati cinquant' anni ed è venuto il momento di consegnare quel tempo alla Storia e alla memoria privata ma, se tanto è stato fatto - nel nostro caso come in molti altri abbiamo avuto il conforto della Giustizia dello Stato - alcune tessere del mosaico ancora mancano.
paolo e mario calabresi con la madre gemma
Molti degli uomini e delle donne che hanno ucciso, che hanno aiutato ad organizzare, che hanno sostenuto, fiancheggiato e che sanno, sono ancora tra noi. Da mezzo secolo però si sono rifugiati nel silenzio, in un silenzio che è omertà. Continuo a pensare che il coraggio della verità sarebbe per loro un'occasione irripetibile e finale di riscatto. Il gesto che permetterebbe di chiudere definitivamente una stagione e a noi di ricordare non solo il poliziotto, ma l'uomo che tornava a casa nel cuore della notte e si metteva a fare le crostate per la colazione della mattina dopo.
gemma calabresi con i figli paolo, mario e luigi