MARINA ABRAMOVIC VIRGINIA RAFFAELE
Vincenzo Tritone per La Lettura – il Corriere della Sera
Ventidue novembre. Virginia Raffaele è a Pompei per Performance , in tournée dal 2016: le ultime repliche si terranno al Brancaccio di Roma da martedì 28 novembre a domenica 3 dicembre.
Arriva puntuale, priva di vezzi da star.
Sembra più giovane di quanto emerga dalla maggior parte delle foto che la ritraggono.
MARINA ABRAMOVIC VIRGINIA RAFFAELE
Alcune suggestioni letterarie anticipano il nostro appuntamento. Innanzitutto, Borges. Che, in un celebre racconto, elogia Pierre Menard, maestro dell'«attribuzione erronea»: un romanziere che sogna di riscrivere alcuni capitoli del Don Chisciotte di Cervantes, provando a far coincidere la propria scrittura con il suo modello, ma si ritrova involontariamente a creare un' opera autonoma.
E poi Pasolini. Il quale, replicando a un lettore che, su «l' Unità», aveva perfettamente imitato il suo linguaggio, scriveva: «Non sono inimitabile/ un colto ignoto può imitarmi,/ rendendomi solo un po' sclerotico./ Ma il mio imitatore borghese, che fa/ questi squisiti scherzi ()/ sappia che chi mima lo stile mima un' anima;/ recitando me egli per poco è stato me/ per poco egli è stato più realista del re».
Ecco, Virginia Raffaele sembra oscillare tra questi due poli: tra il pasoliniano «chi mima lo stile mima un' anima» e la borgesiana «attribuzione erronea». Da una parte, la fedeltà. Dall' altra parte, l' infedeltà.
MARINA ABRAMOVIC VIRGINIA RAFFAELE
In primo luogo, per lei, è decisivo lo studio dei personaggi che sceglie di rappresentare. In maniera meticolosa e spesso ossessiva, ne investiga la mimica, i comportamenti, la voce, i tic, le frasi. Li adotta, li «indossa», fino ad annullarsi.
Si immedesima con essi, mirando a ridurre al massimo la differenza tra l' originale e la copia. Poi, forse in implicita consonanza con certe finzioni di Cindy Sherman, li rilegge, li reinterpreta. Li personalizza. Li trasfigura. E, adottando alcuni artifici cari ai clown, ne esaspera tratti, movenze e caratteri, grazie alla collaborazione di esperti truccatori. Un gioco illusorio e satirico di metamorfosi. Che conduce lo spettatore verso i territori liberatori ed eversivi del comico.
Affiorano anche alcune intenzioni segrete, private. All' apparenza, la Raffaele mette in scena solo divertenti sequenze di travestimenti. In realtà, indossa mille maschere per parlare di lati diversi di se stessa: del suo istrionismo, delle sue inquietudini, delle sue ansie, delle sue solitudini. Nascondendosi dietro altre identità, va alla ricerca di se stessa. I suoi spettacoli, perciò, sono (anche) differite forme di autoanalisi. A questo rimandano i titoli dei suoi più fortunati spettacoli: Facciamo che io sono (andato in onda su Raidue) e, appunto, Performance . Che non è solo un esercizio virtuosistico. Il pubblico incontra le celebrity imitate dall' attrice-autrice romana: tra le altre, la criminologa Roberta Bruzzone, Francesca Pascale, Carla Fracci, Ornella Vanoni e Marina Abramovic. Ma soprattutto è invitato ad assistere a carrellate di sdoppiamenti (su sei schermi). La Raffaele si interroga continuamente sul suo essere se stessa o altro da sé, dando vita a una drammaturgia densa di rinvii al mondo dell' arte. Sin dal titolo.
MARINA ABRAMOVIC VIRGINIA RAFFAELE
In particolare, la Raffaele si riferisce a uno tra i generi maggiormente praticati dai protagonisti delle avanguardie del secondo dopoguerra: la performance.
Che indica la necessità di superare ogni filtro rappresentativo e di portarsi al di là dei linguaggi tradizionali (pittura e scultura). Il performer concepisce i suoi interventi come eventi irripetibili: che esistono solo quando vengono eseguiti; si svolgono in diretta; e chiedono di essere completati dal pubblico. Cruciale è l' accadere, il succedere. La forma non è «fatto» costituito e risolto, ma processo, divenire, superamento di ogni confine tra teatro, danza, musica.
Anche la Raffaele si propone di trasgredire queste differenze. Figura totale, recita, balla, canta: lavora sulla mimica facciale, usa il corpo e la voce. Ispirandosi - appunto - a uno dei padri della performance, Marina Abramovic. Un' artista diventata celebre, dai primi anni Settanta, per i suoi gesti scandalosi, per le sue azioni provocatorie ed estreme.
Antiborghese, audace, irrequieta, irrispettosa, teatrale. Ma anche narcisista, vanitosa. Una voce underground. Che, dopo The Artist is Present - la performance durata cento giorni tenutasi nel 2010 al Moma di New York - è diventata un personaggio ipermediatico. Da artista maledetta a icona pop.
L' Abramovic è presente in diversi momenti dello show della Raffaele. Se ne evocano alcune tra le più famose performance: quando mangia cipolle, quando si fa attraversare da due pitoni, quando si lamenta, quando si fa sacerdotessa laica vestita di rosso. Inoltre, la ascoltiamo ripetere i suoi mantra («Marina Abramovic is art, is life, is body. Art is life, is body. Body is art»). Nell' epilogo, l' Abramovic si toglie l' abito. Solo allora in scena vediamo la «vera» Virginia Raffaele. Che, però, non riesce a parlare con la propria voce: a dire chi è.
Dunque partiamo da Pasolini - «chi mima lo stile mima un' anima» - per descrivere il suo metodo di lavoro.
«Quando scelgo un personaggio, mi piace partire da pochi spunti marginali: ad esempio, un gesto della mano, che può svelare timidezza. Da quel gesto posso risalire all' interiorità del personaggio.
Il mio è un metodo da autodidatta. Di un soggetto che voglio "rifare" cerco di sapere tutto. Lo studio. Mi compenetro con lui. Guardo come si muove, come parla, che cosa dice. Questi dati convergono nel quadro istintivo che mi costruisco. Mi affascinano soprattutto le persone diverse da me, nei confronti delle quali mi comporto un po' come se fossi Tom Ponzi: mi sento un investigatore sulle tracce di qualcuno che non conosco».
Come si svolge la preparazione delle sue performance?
«Evito di guardarmi allo specchio mentre provo. Preferisco mettermi "in soggettiva". Cerco di essere qualcun altro. Voglio diventare qualcun altro. Dimenticando chi sono».
Fondamentale il ruolo del trucco, del silicone, dei «chili di colla» che usa per camuffarsi.
«Mi affascina il trasformismo. Cerco di far coincidere la maschera con il personaggio».
Sembra esistere, in lei, una naturale inclinazione clownesca. Fellini ha scritto: «Il clown incarna i caratteri della creatura fantastica, esprime l' aspetto irrazionale dell' uomo, la componente dell' istinto, quel tanto di ribelle e di contestatario contro l' ordine superiore che è in ciascuno di noi. Il clown è uno specchio in cui l' uomo si rivede in grottesca, deforme, buffa immagine. Il talento clownesco è secondo me la qualità più preziosa in un attore; la considero l' espressione più aristocratica e autentica di un temperamento».
«In queste parole ci sono io. Guardi questa foto (mostra uno scatto che la ritrae bambina vestita da clown, ndr ). Mio zio faceva il clown. Sin da ragazzina, mi sono sentita un clown. E ho sempre ammirato gli attori-clown: Buster Keaton, Totò, Franco Franchi. Sì, sono un buffone».
Poi, subentra l' atto dell' interpretazione. Si immedesima a tal punto con i suoi «eroi» da renderli diversi da come sono. È qui il suo saper compiere, per dirla con Borges, «attribuzioni erronee».
«Tendo a costruire scatole all' interno delle quali mescolo le carte del vero e del falso. Ma le mie non sono mai copie esatte. Cerco di restare coerente con l' identità delle figure che scelgo, ma mi diverte integrare parti. Aggiungo momenti inverosimili ma credibili. Mixo oggettivo e soggettivo. Ma il pubblico non può distinguere i piani: deve chiedersi dove sono davvero io».
I suoi mascheramenti potrebbero essere letti anche come un tentativo di autoanalisi.
«La parodia degli altri è in realtà anche un' analisi di me stessa. Ogni volta è come se sfiorassi l' essenza dell' essere umano. Mi si assottiglia la pelle. Ma devo confessarti che, più interpreto gli altri, meno capisco me stessa. Spesso mi chiedo: mi sto esponendo o mi sto nascondendo?».
La dimensione spirituale è all' origine della maggior parte degli interventi dell' Abramovic. Come l' ha scoperta?
«A "Quelli che il calcio", quando fu messa di fronte a Valeria Marini. Ne ho studiato a lungo l' opera, pur non avendo specifiche conoscenze sull' arte. Poi, in occasione di una delle ultime edizioni della Biennale di Venezia, ho riproposto The Artist is Present . All' inizio, in tanti hanno creduto che quella fosse Marina e non Virginia».
Il suo è un omaggio ma anche uno sberleffo contro tanti equivoci dell' arte di oggi, che fa ripensare alla satira dell' Abramovic realizzata da Paolo Sorrentino in «La grande bellezza», dove compare la performer Talia Concept, che è dominata da vibrazioni «spesso di natura extrasensoriale». Nel suo spettacolo, l' Abramovic dice: «Non tutti possono capire l' arte contemporanea, ma tutti possono pagare per vedere l' arte contemporanea»...
VIRGINIA RAFFAELE IMITA ANNA OXA
«Ho preso un po' in giro il mondo dell' arte contemporanea. E l' Abramovic, diventata oramai soprattutto un' artista glamour».
Secondo qualcuno, le sue non sono imitazioni ma installazioni umane, create da un' attrice-performer, che sa coniugare uso della faccia, del corpo, della voce e predilige lo spettacolo unico e irripetibile.
«Per me un attore non può non saper muoversi, recitare, cantare. A me piace imparare qualcosa che non conoscevo prima. Affrontare esperienze diverse.
Che poi metto insieme. Cerco di essere preparata su diversi fronti, per occasioni differenti. Da grande vorrei fare la performer» ( sorride ) .
Non crede di essere oramai pronta ad abbandonare trucco, silicone, colla?
«In futuro so che abbandonerò l' imitazione di alcuni personaggi pop. Ma mi seducono troppo trucchi ed effetti speciali».
Che farà dopo «Performance»?
«Dormirò tanto. Scherzo. Non so ancora che farò. Ma so che ho bisogno di fare qualcosa di diverso».
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Un po' come la maggior parte degli artisti d' avanguardia, sembra animata dalla volontà di non ripetersi. La sua sfida: esplorare territori finora a lei ignoti.
«Prima di iniziare una nuova avventura mi chiedo sempre se c' è un motivo per intraprenderla. Ora sento che ho bisogno di trasgredire i miei limiti. Di superare certe soglie di rischio. Di fare qualcosa di estremo. Di mettermi in discussione. Di stupirmi. Un po' come fanno gli statement. O come i trapezisti, che passeggiano nel vuoto, sospesi tra paura ed ebbrezza».
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