Riccardo Staglianò per “il Venerdì di Repubblica”
Trump che, a bordo del suo dirigibile militarizzato, manda tweet come saette sino a quando le sue parole incendiarie appiccano una guerra nucleare alla quale sopravviverà solo l' 1 per cento della popolazione. Oppure Dante Alvarado, primo latino a insediarsi alla Casa bianca, che finalmente costruisce il famoso muro cavallo di battaglia del suo lontano predecessore, ma stavolta, corre l' anno 2029, per impedire di rifugiarsi in Messico agli statunitensi flagellati da una crisi economica definitiva.
Oppure un ennesimo presidente americano, succube della destra religiosa, decreta che le donne non possano pronunciare più di cento parole al giorno, pena una scossa inflitta da un braccialetto elettronico. Oppure l' interminabile fila in cui i cittadini di un simil-Egitto devono stare, per giorni o anche mesi, per impetrare il permesso per fare qualsiasi cosa.
Oppure un Friuli-Venezia Giulia, infine indipendente dopo una guerra fratricida, trasformato in un' accozzaglia di parchi a tema perturbanti tra lager nazisti, Trieste riasburgizzata e i Celti sulle montagne.
Parliamo, in ordine di apparizione, dei recenti o imminenti Trump Sky Alpha di Mark Doten (in uscita a febbraio negli Usa e in Italia per Chiarelettere), I Mandible di Lionel Shriver (Fazi), Vox di Christine Dalcher (Editrice Nord), La fila di Basma Abdel Aziz (Nero edizioni) e Furland® di Tullio Avoledo (ancora Chiarelettere). Un assaggio minimo di un giro del mondo di catastrofe in catastrofe. L' appetito per le distopie, ossia il racconto di scenari di un domani addirittura peggiore dell' oggi, sembra un pozzo senza fondo. In libreria come in tv.
Che il futuro non sia più quello di una volta lo spiegava, non da ieri, il poeta Paul Valéry. Ma almeno prima, se non proprio a realizzarlo, riuscivamo almeno a immaginarne di migliori. Adesso non più. Perché?
Intanto intendiamoci. Distopia è il contrario di utopia, e se la seconda è la speranza di un paradiso in terra, la prima è la condanna a vivere in un paradiso perduto. Il termine, una volta potabile solo tra appassionati di fantascienza, è diventato di uso comune anche da noi. Con qualche approssimazione, maieutica è stata la crisi del 2008. In quell' anno su Repubblica era apparso una sola volta. Cinque anni dopo otto. Nel 2018 trentacinque.
Chiedo a Tommaso Pincio, tra i pionieri nostrani del genere con Cinacittà (Einaudi) dove, in una Roma ormai definitivamente invivibile per il riscaldamento climatico, solo i cinesi resistono e prosperano: «È il sinonimo per evitare di dire fantascienza, che sconta lo stigma di un genere minore e di cui la distopia è una versione al negativo.
Mentre in quella prefiguravamo un sacco di cose che non potevamo fare ancora, in questa temiamo di perdere cose cui siamo abituati e non potremo fare più. D' altronde per la prima generazione che starà peggio dei padri quale genere potrebbe essere più giusto?
La serie tv Black Mirror racconta, sotto la crosta tecnologica, la durezza di vivere in un Regno Unito a welfare ridotto. E quando Salvini dice "stop all' invasione" tratteggia con sapienza un orizzonte distopico».
Che ricalca l' allarme lanciato negli anni 70 dal francese Jean Raspail in Il campo dei santi, non a caso livre de chevet di Steve Bannon, ripubblicato in Italia dal neofascista Franco Freda.
Ipotizzare un domani peggiore è, al contempo, una cattiva e una buona notizia. Perché intanto, in una sorta di escapismo letterario, significa che l' oggi non è ancora così male e, magari, qualcosa si può fare per cambiare il finale.
In ogni caso, come spiega bene la britannica Lionel Shriver, «le trame ambientate nel futuro sono sempre su quello che la gente teme nel presente». Il dialogo con l' attualità è costante. Il racconto dell' ancella tratto da Margaret Atwood, con le sue donne usate come schiave da riproduzione in un mondo diventato sterile, è forse il più citato tra le fiction cupe di successo.
Ma il libro è dell' 86, scritto come reazione all' involuzione neoliberista del duo Reagan-Thatcher. Nel primo anno della presidenza Obama vennero vendute mezzo milione di copie di La rivolta di Atlante, in cui Ayn Rand, nel '57, immaginava uno sciopero-secessione dei più ricchi e intelligenti contro uno Stato troppo generoso con i poveri che, per l' autrice, erano una fastidiosa schiuma della terra (Alan Greenspan, l' ex governatore della Fed, era discepolo della Rand). Mentre nel primo mese dell' èra Trump 1984 di George Orwell ha conosciuto un aumento del 9500 per cento delle vendite. Se non si vedono vie d' uscita perlomeno leggiamole.
Il genere nasce all' indomani della Rivoluzione francese, dice il professor Gregory Claeys, autore di Dystopia: A Natural History (Oxford University Press): «Le distopie letterarie hanno sempre aiutato a risvegliare l' ansia sul potenziale futuro per spingere le persone all' azione, al fine di prevenire un crollo sociale, politico o ambientale. Funzionano da avvertimento.
Mentre in passato la scienza e la tecnologia erano viste in chiave liberatrice ora diventano la minaccia che sradica l' umanità». Tra i temi nuovi più fecondi Claeys cita la prospettiva del disastro ambientale, innescata dal «rapido passaggio dalle aspettative di un innalzamento della temperatura di 1,5 gradi a uno di 2-3 gradi. Anche la critica al capitalismo, più che motore di disuguaglianze, è fatta come fattore di rischio antropocenico per l' ambiente». Ovvero la cosa cui il vero 45esimo presidente Usa, di fronte a un terrorizzante rapporto partorito da oltre 300 scienziati e 13 agenzie federali, ha confessato di «non credere».
A proposito di realtà che supera la fiction (per rifarvi consiglio la strepitosa risposta del comico Trevor Noah https://goo.gl/EBYqpG). L' arrivo del twittatore furioso alla Casa Bianca ha ispirato vari corsi universitari sulle distopie. A partire dal suo discorso di accettazione, costellato di temi apocalittici («La carneficina americana», «Costretti a morire per mano di killer selvaggi», «Povertà e violenza in patria, guerra e distruzione all' estero») materia di studio nei corsi di Thomas J. Otten alla Boston University e di Nicholas Junkerman allo Skidmore College.
Anche James Berger, che insegna American studies a Yale, lo propone ai suoi studenti: «Il moltiplicarsi di distopie deriva da una generale incapacità di immaginare un futuro che sia giusto e sostenibile. Tutti gli sviluppi delle circostanze attuali - siano esse politiche, economiche, tecnologiche e soprattutto ambientali - appaiono sia negativi che incontrollabili. Non avremmo affatto bisogno di ulteriori distopie letterarie ma sono il segno di una sconfitta dell' immaginazione.
Non solo non siamo in grado di fare passi avanti verso un futuro migliore ma neppure immaginiamo quali possano essere». Come ottimi interpreti dello Zeitgeist cita Paolo Bacigalupi e i suoi La ragazza meccanica (Multiplayer edizioni: nella Thailandia del Trentatreesimo secolo, in un pianeta affamato, il protagonista cerca di impadronirsi della fornitissima banca dei semi del Paese, quando un' androide scatena una guerra civile) e The Water Knife (in cui l' acqua è ormai più preziosa dell' oro e una nuova schiatta di criminali la contrabbanda ai ricchi).
Oppure il filone postumano di Octavia Butler, la prima nera che ha avuto successo come scrittrice di fantascienza. Nel suo La parabola del seminatore, scritto nel 1993 e ambientato nel 2020, la protagonista affetta da super-empatia prova a resistere a disuguaglianze estreme e capitalismo sempre più rapace fondando una comunità utopica nella California settentrionale, in attesa di migrare su altri pianeti.
Con una sorta di contrappasso di genere, dopo aver toccato poco palla nel campionato della fantascienza, le donne vanno fortissimo in quello distopico. A gennaio uscirà da Einaudi il recensitissimo Il libro di Joan in cui Lidia Yuknavitch reinventa una Giovanna d' Arco che dovrebbe salvare un mondo ormai radioattivo dove ectoplasmi asessuati vengono uccisi a cinquant' anni perché i fluidi nei loro corpi sono gli unici liquidi della colonia stellare dove sono riparati (la menopausa come distopia?).
Mentre in Before She Sleeps la pachistana Bina Shah immagina un mondo simil-atwoodiano dove, tra soli diciassette anni, le donne sono costrette alla poligamia e alla gravidanza per altri per ripopolare un mondo decimato dalle guerre. Per non dire dell' acclamato The Water Cure dell' esordiente britannica Sophie Macintosh, in cui tre sorelle sono costrette a rifugiarsi in un' isola per mettersi in salvo da orde di maschi assassini, in un futuro prossimo dove il femminicidio è la regola. Un quadro che l' inglese Naomi Alderman rovescia in Ragazze elettriche uscito un anno fa da Nottetempo.
Lì sono gli uomini a essere ridotti in semischiavitù grazie a un superpotere che consente alle adolescenti di fulminare con una scossa elettrica chiunque cerchi di molestarle. Mentre in La festa nera (Chiarelettere) Violetta Bellocchio narra di tre ragazzi sopravvissuti a stento a una micidiale campagna d' odio su internet che filmano, in un near future dove quello di documentarista è l' ultimo gradino dei lavori socialmente utili, un Nord-est italico allucinato tra veneratrici del dolore, ineffabili guaritori e hipster eremitici che ripudiano la tecnologia. Quanto di più vicino, giura Pincio, a una versione nostrana di Black Mirror.
Viviamo, per dirla con la diagnosi del filosofo John Gray, «in una cultura ipnotizzata dallo spettacolo della propria fragilità». Ci sarebbe, in questo ribollire di pessimismo cosmico, un forte elemento narcisistico. Ovvero la convinzione che le nostre ansie siano più gravi, più definitive, più giustificate di quelle di chi ci ha preceduto.
Testimoniare l' inizio della fine farebbe di noi dei privilegiati. Che, con una certa voluttà, si abbandonano a questo pensiero nero. Alcuni critici hanno chiamato in causa la tipologia, quel metodo di interpretazione biblica che punta a leggere il Nuovo Testamento alla luce del Vecchio, come se il secondo non fosse che il sequel dove i personaggi del primo trovano completezza. D' altronde Apocalisse significa, alla lettera, rivelazione.
E, in questo filone di pensiero, la narrativa d' anticipazione apocalittica finirebbe per restituire un senso ad eventi che oggi ci sembrano semplicemente caotici. E anche il futuro, nella sua spaventevole grandezza e imprevedibilità, diventa più maneggevole quando riusciamo ad appiccicarci sopra brandelli di senso. Ancorché per via di fiction.
Nell' azzardare ipotesi sul perché desideriamo tanto questo tipo di storie apparentemente non consolatorie Peter Herman, che ha dedicato loro un corso alla San Diego State University, dice che «cerchiamo distopie perché l' ideale utopico della società perfetta è stato totalmente screditato nel Ventesimo secolo. Adorno disse che, dopo Auschwitz, scrivere poesia era un atto di barbarie. Ma anche dopo l' Unione sovietica e la Cina comunista pensare di creare una società perfetta è un atto di barbarie. Le distopie riflettono la fine di quell' illusione».
Nello specifico, per lui le distopie odierne differiscono da 1984 o da Il mondo nuovo di Aldous Huxley per il sospetto nei confronti del business: «Anche allora si temeva la tecnologia, ma non la sua dimensione commerciale. Oggi riflettono invece una forte sfiducia su questa quantificazione costante di quanto vale un essere umano desunto soltanto da ciò che lui o lei consumano». Il che ci porta nei paraggi di The Wall, il romanzo di John Lanchester, tra i migliori scrittori di cose economiche in circolazione, che esce a gennaio dalla londinese Faber.
Il muro cui il titolo fa riferimento è stato costruito tutto intorno alla Gran Bretagna per tenere lontani gli "Altri", ovvero moltitudini di reietti condannati da "The Change", un cataclisma ambientale. Forse punizione divina per la Brexit...
Berger, il professore di Yale, allunga la lista delle distopie politiche in atto ben al di là di Stati Uniti e Gran Bretagna («Russia, Turchia, Ungheria, Polonia, e vogliamo includere l' Italia?»). Un po' come la satira arranca quando i ministri fanno ridere involontariamente, anche la letteratura deve ingranare una marcia più alta per superare la realtà. Herman, il docente californiano, mette sul podio i meno recenti The Circle, in cui Dave Eggers ambientava in una specie di Facebook ancora più malevola un esperimento sociale dirompente, e Feed di M. T. Anderson, romanzo cyberpunk per giovani adulti, dove i protagonisti sono connessi all' internet dell' epoca attraverso impianti neuronali che un hacker riesce a violare, lasciandoli temporaneamente svuotati di pensieri.
Per affrontare il mistero del perché le distopie piacciano così tanto ai ragazzini, da Game of Thrones a Uglies, ambientato in un futuro prossimo e desolato dove tutti sono considerati brutti salvo essere trasformati in belli da chirurgie estetiche estreme raggiunto il sedicesimo anno d' età, servirebbe un altro articolo.
Alla fine quel che mi sembra più utile valorizzare, di questo vecchio genere che gode di ottima salute, è la dimensione di pungolo. L' eroina del Racconto dell' ancella spiega così perché è finita in quel mondo tanto indesiderabile: «Prima ero addormentata. È così che abbiamo permesso che accadesse». È un avvertimento che, da Brecht alla Atwood, vale anche per chi ha tutt' altri gusti letterari.