ALESSANDRO GNOCCHI per il Giornale
C'era una volta la satira ma non c'è più. Peccato, anche perché l'Italia aveva una vivace tradizione, anche letteraria, che ha iniziato a inabissarsi con l'avvento della televisione (naturalmente con tutte le eccezioni del caso). Oggi abbiamo ancora maestri, come Maurizio Milani, uno dei principali scrittori italiani, o figure emergenti, come il felpato Valerio Lundini.
Entrambi a proprio agio con la pagina scritta (Era meglio il libro di Lundini è vicino al diventare un caso) e con la televisione (se solo la lasciassero fare a Milani, espulso dal giro giusto, Fabio Fazio e accoliti, per eccesso di libertà). Sul web la satira funziona eccome: Osho, spesso accusato di avere simpatie politiche sbagliate (cioè di destra), e Lercio.it, feroce nel ridicolizzare l'informazione tradizionale, sono due storie di meritato successo.
Resistono anche i vignettisti su carta, il nostro Alfio Krancic o Alessio Di Mauro. Tuttavia, è innegabile: lo spazio della satira si è ristretto, a causa del politicamente corretto e della invadenza dei partiti nei media, non che non ci fosse in passato, ma forse non era così diretta e pressante. Qui vogliamo proporre una piccola storia, senza pretese di completezza, della satira affidata alla parola scritta, spesso firmata da grandi scrittori. Vedrete che ne volavano di tutti i colori. Lo scontro era vero scontro. Cattivo, anche tra amici o amici degli amici. C'erano nomi e cognomi, le polemiche non circostanziate, generiche, non erano ben accette.
Un tempo c'era più coraggio, anche se a noi sembra che lo spazio riservato oggi alla satira sia enorme, e che si possano dire cose che un tempo erano proibite. Un tempo, non c'era la querelite, una battuta, una querela. Erano tutti più sportivi. Basta sfogliare le riviste Cuore o il Male per capire: pochi anni fa erano consentiti sberleffi che oggi scatenerebbero reazioni isteriche, richieste di scuse, boicottaggi e via di cultura (si fa per dire) della cancellazione.
Cuore fece una prima pagina dove il ministro Guidi, paraplegico, vinceva le Olimpiadi di corsa con gli ostacoli. Guidi si fece una grande risata, placò ogni discussione e ringraziò per aver portato l'attenzione sul problema. Il Male pubblicò una finta prima pagina, modellata sul quotidiano Paese Sera, in cui annunciava l'arresto di Ugo Tognazzi, capo occulto delle Brigate Rosse. Qui ci fu un po' di indignazione, chiusa dal grande attore cremonese: «Rivendico il diritto alla cazzata». Novantadue minuti di applausi. Di fronte a due casi come questi, forse oggi la gente scenderebbe in piazza a protestare con i gessetti o cose del genere, tutte degne di satira, tra l'altro.
La satira si paga cara. Gaio Fratini, per esempio, re dell'epigramma polemico-satirico, finì in povertà, ebbe la legge Bacchelli per iniziativa di Vittorio Sgarbi. Proprio Fratini, per anni redattore al Caffé di Giambattista Vicari, punto di riferimento per chi voleva evadere dal neorealismo e dalle avanguardie, compilò una esilarante antologia di poesia satirica, La rivolta delle muse.
Epigrammi d'Italia (Vallardi, 1994). Vista la data? Un attimo prima della trasformazione del comico in tribuno della plebe in funzione politica di contrasto al centrodestra, una stagione davvero umiliante per la satira, con i giullari ridotti a camerieri del potere mediatico e culturale, fortemente sbilanciato a sinistra. Comunque, prendiamo La rivolta delle muse e utilizziamola come guida.
Il critico cinematografico Gian Luigi Rondi stroncò Accattone di Pier Paolo Pasolini. Risposta in versi del poeta-regista: «Sei così ipocrita, che come l'ipocrisia ti avrà ucciso, / sarai all'inferno e ti crederai in paradiso». Altro biglietto pasoliniano, a Mario Luzi: «Questi servi (neanche pagati) che ti circondano / chi sono? A che vera necessità rispondono? / Tu taci dietro a loro, con la faccia di chi fa poesie: / ma essi non sono i tuoi apostoli, sono le tue spie».
Alberto Moravia era noto per l'erotismo di certe sue pagine. Non a tutti piacevano. Mino Maccari: «Maggio ti mette in corpo la lussuria / ma a conservarti, o mia fanciulla savia / quando d'amor ti coglie troppa furia / ti basterà un romanzo di Moravia». Ancora Maccari sulla saletta di Carlo Levi alla Biennale di Venezia: «Levi questo! Levi quello! Levi tutto!». Il fenomeno dell'appellite risale agli anni Sessanta. Da lì, il diluvio, il più triste referto intellettuale degli anni Sessanta-Settanta resterà per sempre l'appello contro il commissario Calabresi pubblicato dall'Espresso. I firmatari compongono un ritratto del bel mondo paurosamente simile a quello attuale. Gaio Fratini, Avanti, popolo!: «Chi lo firma non legge / chi legge non lo firma / chi s' affranca dal gregge / quel manifesto infirma».
Incredibili le bordate di Curzio Malaparte, la più cattiva riguarda l'Italia intera: «Se il cuore è forte e il sangue è rosso e cupo / anche in Italia l'uomo all'uomo è lupo. / Oggi che il sangue è giallo e il cuore inerme, / anche in Italia l'uomo all'uomo è verme». Provate a immaginare se Ennio Flaiano presentasse a una rivista un epigramma di tal fatta: «Rifiuto il cinema d'arte / che suscita tante discussioni. / Esteti e filosofi culattoni / non confondiamo le carte». Sarebbe linciato, dovrebbe ritirare il tweet, pardon, l'epigramma. Come questo sui filosofi marxisti: «Platone d'esecuzione» o questo sui tipi che si autodefiniscono creativi: «Oggi il cretino è pieno d'idee».
Immaginiamo come sarebbero accolte queste micro-stroncature: «Bergman: tanto silenzio per nulla». «Antonioni: tempesta in un bicchier d'acqua minerale». Marcello Marchesi ha toccato tutte le corde. Politica: «La rivoluzione si fa a sinistra, i soldi si fanno a destra». Sociale: «La legge è uguale per tutti. Basta essere raccomandati» o «Mangiate merda, milioni di mosche non possono sbagliare». Esistenziale: «Due parallele si incontrano all'infinito, quando ormai non gliene frega più niente».
Anche il cabaret ha una gloriosa tradizione comica, con punte satiriche, ne fanno parte a pari titolo Giorgio Gaber e Paolo Villaggio, Enrico Vaime e Nanni Svampa. Umberto Simonetta ne fece una bella antologia, La patria che c'è data (Bompiani, 1974). Leo Longanesi planava come uno Stuka sui luoghi comuni. Bomba numero uno: «Tutte le rivoluzioni cominciano per strada e finiscono a tavola». Bum! «Vissero infelici perché costava meno». Bum! Per finire con questa battuta tristemente attuale: «Alla manutenzione, l'Italia preferisce l'inaugurazione».
Antonio Delfini prendeva in giro le località balneari della Versilia dove aspiranti scrittori, sedicenti industriali e nobili decaduti si trovavano seduti intorno ai tavolini dei caffè. Alfonso Gatto componeva Denigrammi, cioè epigrammi denigratori, massacrando colleghi (Carlo Levi, Mario Soldati) e critici (Bo, Falqui, Spagnoletti). Cesare Vivaldi commentava il carrierone del Pittore impegnato: «Realista socialista, se vuoi Montecitorio / non devi mai cambiare il repertorio». Sulle pagine del Caffè si dibatteva sulla natura della letteratura satirica. Il più radicale fu Giorgio Manganelli: «Un fondamentale elemento di disubbidienza governa gli impulsi della letteratura.
Vede come rilutta, come accetta anche di morire, quando la si vuol fabbricare onesta. È ascetica e puttana. Possiamo forse vedere la letteratura come una satira totale, una pura irrisione, anarchica e felicemente deforme; una modulazione del blasfemo». Nel cuore della letteratura sta chiusa una risata tra l'olimpico e il demente, la risata «di Adamo morente» che lasciò Dio «profondamente sconcertato». Tutta la letteratura, dunque, è sovversione delle regole e delle idee, tutta la vera letteratura è satirica. Sembra di leggere pagine appartenenti ad altre civiltà e ad altre ere geologiche. Invece una discussione di questa profondità era possibile in Italia nel 1967. Qualcosa deve essere andato storto...
AFORISMA LONGANESI TOGNAZZI CAPO BR IL MALE